Magic fingers | “Truth”, quella volta che Jeff Beck partendo dal blues inventò l’hard rock

Il Jeff Beck Group è il “supergruppo che non sarà mai”, una storia carica di promesse che però non avrà il finale previsto. Siamo nell’Inghilterra del blues boom: la musica nera d’oltreoceano è diventata l’ingrediente comune a tutta una generazione, ognuno si ispira e attinge, poi la rifà a modo suo.

È il 1963, gli Yardbirds sono una di queste band, una delle più dotate. Hanno come chitarrista quello che si annuncia come il ragazzo-prodigio del blues, Eric Clapton. Il quale, però, è talmente preso dal blues, con spirito da purista, che quando dopo due anni il quintetto fa una svolta appena più commerciale, entrando in classifica dei singoli con “For Your Love”, molla il gruppo e cerca rifugio nell’università del blues di mastro John Mayall.

Gli Yardbirds cercano un sostituto: Jimmy Page, altro ottimo chitarrista – già una presenza frequente in molte incisioni come superturnista di studio – declina, ma suggerisce il nome di quel ragazzo che gli ha presentato tempo prima Annette Beck, la sorella.  

Jeff ha 21 anni, e la sua storia d’amore con la chitarra elettrica risale a quand’era bambino. A sei anni ha chiesto alla madre cosa fosse quella musica che sentiva alla radio: «’How High The Moon’ di Les Paul, Jeff», gli risponde, «è una chitarra elettrica, e sono tutti trucchi». «That’s it for me! È quello che voglio!», dice eccitato Jeff, che come tanti bambini dell’Inghilterra post-bellica si costruisce subito una simil-chitarra da solo con le scatole dei sigari, un paletto della recinzione come manico e delle corde di plastica. È folgorato: «Ero interessato alla chitarra elettrica prima ancora di conoscere la differenza con quella acustica. Sembrava essere un oggetto di legno pieno di fascino, con pomelli e interruttori sopra. Dovevo averne una».

I primi amori sono, appunto, Les Paul – praticamente l’inventore della elettrica, che darà il nome a una delle Gibson più famose nel rock – BB King, Steve Cropper della superband della Stax di Memphis, Booker T. & the MG’s. A 18 anni comincia a suonare in gruppi di r’n’b e di blues, quelli sorgono come funghi, finché nel 1965 gli arriva la chiamata dagli Yardbirds. Non durerà molto, meno di due anni, giusto il tempo di rivelarsi come uno sperimentatore sonoro dalle influenze eclettiche: non solo il blues, ma anche musica indiana (l’assolo di “Heart Full Of Soul”), spingendosi ai limiti della tecnologia di allora: fuzz-tone, riverbero, feedback, tremolo, distorsore.

Alcuni singoli di successo, un live (“Having A Rave Up”) e un secondo live accompagnando il leggendario armonicista Sonny Boy Williamson; un solo album in studio, “Over Under Sideways Down”, e un’apparizione nel film “Blow Up” di Michelangelo Antonioni, ottima fotografia del periodo dell’esplosione della moda&musica nella Swingin’ London.

Nel frattempo, l’amico Jimmy Page è entrato nel gruppo, a quel punto con due chitarre soliste il discorso si fa serio, la competizione sulla scena è feroce ma nessuno può vantarne due così insieme. Ma nel 1967, durante un tour americano, viene licenziato, il suo temperamento fumantino e qualche problema di puntualità lo rendono difficile da maneggiare. E non a caso tutta la sua carriera successiva sarà davvero solista, nel senso che sono sempre gruppi scelti e messi insieme da lui, e comunque senza garanzia di durata. 

Sono anni in cui si va veloce, si crea e si distrugge, un gruppo via l’altro, sempre in cerca di un sound diverso e migliore. Dopo la “scuola Mayall”, Clapton crea il prototipo del trio basso-chitarra-batteria, i Cream, e poi i Blind Faith. Jimmy Page fonda i Led Zeppelin, trio con cantante (chiamati all’inizio the New Yarbirds). Sia i Cream che gli Zeppelin, insieme alla Experience di Jimi Hendrix, rappresentano la nuova frontiera del blues-rock-psichedelìa.

Beck, talentuoso come e più degli altri, ma con una focale meno precisa sul da farsi (ma sicuramente non suonare il blues per sé), mette sù il Jeff Beck Group, che ha delle potenzialità infinite. Alla voce c’è un già grande Rod Stewart, rauco e passionale nel suo approccio, e così personale da identificare subito una band con la sua sola voce. Basso e batteria sono due ottimi strumentisti (Ron Wood e Micky Waller), pesanti il giusto (cioè tanto). Il resto, con sovraincisioni se serve, lo fa il titolare, che cerca il suo suono in modo più eclettico e meno schematico degli altri due “rivali”. Ma con una frustrazione profonda: «L’equipaggiamento disponibile allora non era all’altezza dei suoni che sentivo nella mia testa».

Il risultato sono due album notevoli, promettenti ed anticipatori, ma che saranno al contrario uno dei tanti capitoli del percorso di Jeff (generalmente brevi, la band si scioglierà dopo due anni e mezzo alla vigilia di Woodstock, dove sono stati invitati, decisione di cui Beck si pentirà a lungo). Beck non è né purista blues né un hard rocker per sé, come invece il Leslie West dei Mountain. Beck è un evoluzionista, cerca opportunità nuove per la chitarra, suonata rigorosamente col pollicione, alla quale chiede mondi e sonorità differenti. Questo primo album e il successivo “Beck-Ola”, 1969, gli unici due con questa formazione, sono influenti tanto quanto Cream Hendrix e Zep per i giovani chitarristi e per tutti coloro che cercano una nuova via al rock-blues. 

Si parte con una versione XP (extra-pesa) di quello che è considerato il primo brano di rock psichedelico, la “Shapes Of Things” degli Yardbirds, cattiva e distorta. Ci sono due classici di Willie Dixon (forse il più grande songwriter di blues), scritti uno per Howlin’ Wolf, l’altro per Muddy Waters: ”I Ain’t Superstitious” non è più quella del Lupo, è un rokkaccio con brusche pause e sgommate di ripartenza che chiude l’album, come a dire «ricordati che se vuoi una cosa seria qui la trovi». “You Shook Me” è anche sul primo album degli Zeppelin (che, attenzione, uscirà 6 mesi dopo), due versioni molto diverse: Page e soci ne fanno un tour de force fra chitarra voce e batteria.

La versione del JFB è molto più corta, quasi una citazione, la voce areostatica di Plant è molto diversa – molto più sborona – di quella di Rod, lui il blues lo canta anche a mezza raucavoce. Anche le due chitarre sono lontane: acuta e penetrante quella di Page, più effettata e meno lineare quella di Beck, che ama distorsioni ed effetti.

Quella del JBG è, per mancanza di definizioni migliori, progressive-blues, effetti e psichedelìa e invenzioni sonore al posto di rigore e fedeltà agli originali, basti veder come usa l’idea del “Bolero” di Ravel applicandola a una struttura blues in “Beck’s Bolero” (peraltro incisa due anni prima, con Jimmy Page, John Paul Jones e Keith Moon, sfasciabatterista degli Who). C’è una versione di “Ol’ Man River”, evergreen americano tratto dal musical “Showboat”, 1927, in cui un empatico Rod geme e si strugge e si lascia trasportare via, seguendo la corrente sulla grande barca che scivola lungo il maestoso Mississipi.  Gran bella slide di Jeff.

Ci sono tre brani firmati da Stewart e Beck con lo pseudonimo di pulcinella di Jeffrey Rod che sono tre rifacimenti di brani blues: “Let Me love You” è di un altro gigante, Buddy Guy, e assomiglia dannatamente a uno dei ritmi preferiti dei Cream (non a caso Guy era fra i  chitarristi preferiti di Clapton); “Blues Deluxe” (con un grandioso assolo di piano di Ian Stewart, “6° membro” degli Stones) è la “Gambler’s Blues” di BB King, a cui appartiene anche la celebre “Rock Me baby/rock me all night long”, che è diventata “Rock My Plimsoul”.

Quest’ultima è un esempio della bizzarra scelta (si sente bene in cuffia) di collocare, nel missaggio, gli strumenti in posti strani, tipo batteria spesso tutta su un canale (in stile anni 60) e chitarra e voce sull’altro; però per l’assolo la chitarra esce dall’angolo, va al centro e poi viaggia da destra a sinistra e viceversa con un effetto psichedelico notevole (eccoli i trucchi di cui parlava la mamma a proposito di Les Paul!).

C’è un brano acustico-solo-chitarra del ‘500 elisabettiano che c’entra come i cavoli a merenda, “Greensleeves”, rarissimo esempio di Jeff alla acustica (del resto, l’aveva annunciato da subito) e infine la sontuosa “Morning Dew”: brano post-apocalittico di una poco conosciuta cantautrice canadese, Bonnie Dobson, che immagina il dialogo fra lui e lei in uno scenario ispirato dal libro/film del 1959 ‘On The Beach’, dove il mondo viene lentamente invaso dalle radiazioni nucleari: 

«Portami fuori nella rugiada del mattino
Non c’è più la rugiada mattutina…
…Dove sono andate tutte le persone, amore mio?
Non te ne preoccupare, non importa più, ormai…»

Negli anni ci sono state tante versioni del brano, che lei canta con una tipica voce altissima stile folk medi anni 60 (alla Joan Baez o young Joni o Sandy Denny): i primi son stati Fred Neil e Tim Rose, poi l’hanno ripresa anche i Grateful Dead e Robert Plant. La versione cantata da Rod Stewart, con un tono straziato, la batteria sotto che rulla e spinge e la chitarra di Beck che trova note impossibilmente acute, è un piccolo capolavoro dei tempi. Segno, tanto per ricordarsi, che anche i gruppi rock hanno bisogno di grandi canzoni per primeggiare, se no è solo tecnica e buona volontà applicata al nulla.

Comunque, per chi c’era, “Truth” è un ricordo dei tempi magnifico. Tempi in cui la musica inglese era in divenire rocambolesco e stupefacente. Un momento epocale di quella scuola inglese intinta nel blues d’oltreoceano, in cui i tre “made in Yardbirds” (aggiungiamo anche Peter Green e Alvin Lee, Mick Taylor e Rory Gallagher) rivaleggiavano come nel Far West, una seicorde in mano e vinca il migliore. Eroi dai capelli lunghi e magic fingers. Sono le fondamenta del rock che verrà o, meglio ancora, dell’hard rock che invaderà gli anni 70. 

E rock così Beck non lo ha più fatto: sì, c’è stato un trio più pesante del piombo, con la ritmica dei Vanilla Fudge, da cui “Beck, Bogert & Appice”, molta caciara per nulla. Da lì in poi Beck ha scelto per il prosieguo della carriera una musica con poche o nessuna parte vocale, strumentali nei quali la sua tecnica pazzesca potesse essere in primo piano, e a livello di tecnica e pirotecnìa, è difficile battere il ragazzo con l’eterno caschetto.

Nel tempo la sua un’idea di chitarra solista si è evoluta in una chitarra sinfonica, che replica le molte parti di un’orchestra con effetti che solo lui conosce. Il suo viaggio degli ultimi 50 anni ha trasceso i generi, transitando per territori molto diversi, dal very hard rock a una sorta di prog/fusion tutta sua. Lo puoi sentire suonare una sontuosa “A Day in the Life’”, davvero come un’orchestra (un po’ fatta), o perché no? “Nessun Dorma”, così come un “Goodbye Pork Pie Hat” di Mingus.

Ha sempre messo su band diverse per progetti sonori diversi, e una di quelle buone è stata la recente, da cui un “Live at Ronnie Scott’s”, con la giovane Tai Winkenfeld al basso, Vinnie Colaiuta alla batteria e Jason Rebello alle tastiere. Ha collaborato sui dischi di, beh, tutti: dai 45 di Donovan degli anni 60 a Kate Bush, da Mick Jagger e Tina Turner a Roger Waters e Brian May. Quel che si definisce ‘a guitarist’s guitarist’. Sei Grammies, ovviamente per Miglior Brano Strumentale, e nella top 5 dei chitarristi, secondo Rolling Stone (in buona compagnia di Clapton e Page, ovviamente).

Gli è mancata, per avere il successo popolare dei suoi “rivali”, la voce. Necessaria per le classifiche e la popolarità. Sapendolo, fin dall’inizio si è creato questo mondo su misura, una architettura di suoni senza voce, se non quella della sua seicorde. Elettrica. Perché la cifra di Jeff Beck è: suono di tutto, ma come me non c’è nessuno. Unico al mondo.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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