Israel Nash – Topaz (2021)

 

di Gianfranco Marmoro

Le immagini monocromatiche delle copertine dei due album che hanno svelato al mondo l’arte di Israel Nash, “Barn Doors And Concrete Floor” e “Israel Nash's Silver Season”, hanno fatto posto ai colori e alle intense tonalità di “Lifted” e del nuovo disco “Topaz”, anticipando così il lieve cambio di rotta del musicista di Austin. Vibrazioni cosmic-country hanno preso definitivamente il posto delle atmosfere più roots, in stile Band per intenderci. La spiritualità della musica di Israel è ora più marcata, ormai centrale nell’economia di uno stile che, alla maniera del Jonathan Wilson di “Fanfare”, si arricchisce di un'enfasi prog-r&b-psichedelia che sembra discendere dai Pink Floyd, spiazzando istantaneamente, con i primi vagiti di “Dividing Lines”, chi sperava in un ritorno alle radici.

Pur germogliato e cresciuto durante il forzato lockdown causato dalla pandemia, “Topaz” non accenna alcun ripensamento progettuale o stilistico: Israel Nash ha trasformato i pochi contributi strumentali (il chitarrista dei Black Pumas, Adrian Quesada, la sezione dei fiati del collettivo Afrobeat Hard Proof e il mago della pedal steel guitar Eric Swanson) in un corpo sonoro solido al pari dei Crazy Horse di Neil Young, artista quest’ultimo che è un punto di riferimento costante, insieme alle dichiarate influenze: C.S.N & Y., Dennis Wilson, Gene Parsons e Pink Floyd.

L’album numero sette di Nash è un altro sorprendente capitolo nel percorso del musicista americano. La scrittura resta solida e priva di cadute di tono, e le pulsioni soul che facevano capolino in “Lifted” ora sono ancor più possenti, al punto che un brano come “Stay”, con il suo seducente incidere melodico e il suadente suono dei fiati, potrebbe ambire a un successo globale, mentre il country-soul di “Indiana” ha tutte le carte in regola per ritagliarsi un posto nella programmazione radiofonica rock-friendly.

Per “Topaz” l’autore mette in campo non solo quella sensibilità spirituale e metafisica, che agli albori ne ha sottolineato l’estro hippy, ma anche gli studi in scienze politiche: “Pressure” infatti non è solo un omaggio a Neil Young e alla celebre “Powderfinger”, ma anche una rabbiosa denuncia di quelle ingiustizie sociali che la pandemia ha reso ancor più schiaccianti, problematiche peraltro già al centro della già citata “Dividing Lines”.

A dispetto dell’intensità e dell’enfasi degli arrangiamenti, “Topaz” è un disco fortemente introspettivo e riflessivo, a volte sembra che Nash non riesca a tenere a bada la quantità enorme di elementi coinvolti nel progetto (soul, prog, country, psichedelia, surf, country, cosmic-music, r&b), ciò nonostante l’avvolgente suono dell’armonica e del banjo che intercettano la giovialità di “Closer” e l’intreccio di soul e country del sensuale e travolgente uptempo pock-blues di “Down In The Country” sono accarezzati da una bellezza che toglie il fiato.

Israel non è più il solitario protagonista degli esordi. Il nuovo album del texano ha una forza e un’universalità che potrà turbare giusto i puristi ma non chi conosce a fondo i meccanismi dell’arte della composizione. L’ispirazione non mostra cedimenti anche nei passaggi più confortevoli come “Southern Coasts”, anche l’ombra di Neil Young non intralcia la creatività: i fan del canadese salterebbero sulla sedia per la deliziosa ballata “Canyonheart” e per il trasognante  tocco alla Jack Nitzsche di “Howling Wind”, e non c’è brano che appaia superfluo, in un progetto peraltro ambizioso e controcorrente nel panorama contemporaneo, sempre di più incline a toni lo-fi e introspettivi.

Il vero gioiello è “Sutherland Springs”, una ballata intensa e struggente che racconta della strage nella chiesa battista di Sutherland Springs nel novembre del 2017 (Devin Patrick Kelley uccise 27 persone e ne ferì altre venti), senza dubbio la sparatoria più violenta della storia del Texas. Un racconto che il musicista affida a indolenti accordi di steel guitar e a un crescendo country-gospel che si tinge di malinconica psichedelia.

“Topaz” è un disco che ha la tenacia e l’ardire dei classici, un disco fortemente lirico al punto da poter superare i confini del cantautorato ed entrare, come è successo al Ray La Montagne di “Ouroboros”, nel ristretto cerchio del moderno classic-rock.

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