Floating Points, Pharoah Sanders & The London Symphony Orchestra – Promises (2021)

 di Giovanni Ansaldo

Scrivere di musica è una cosa strana. Tradurre in parole dei suoni, cercare di far arrivare ai lettori emozioni che spesso hanno a che fare con la nostra parte più irrazionale e istintiva non è facile. Può essere perfino frustrante sia per chi scrive sia per chi legge. E a volte capita di trovarsi di fronte a opere che sono così riuscite e profonde da mettere in crisi la nostra capacità di raccontarle agli altri.

Promises, il disco registrato dal sassofonista Pharoah Sanders e da Floating Points insieme alla London Symphony Orchestra, rientra in questa categoria. È un album così intenso e commovente che lascia di stucco. Si può provare a descriverlo, ma non si riesce a rendere giustizia per davvero a quello che si ascolta. Ci si può perlomeno provare, però.

Pharoah Sanders, 80 anni, è uno dei più importanti jazzisti viventi. All’inizio degli anni sessanta, quando si era trasferito da poco a New York e viveva per strada, fu preso sotto l’ala protettrice di Sun Ra, che lo convinse a cambiare il suo nome da Farrell a Pharoah. Poi fu John Coltrane a volerlo con sé, e i due registrarono insieme Ascension e Meditations. In seguito collaborò con Alice Coltrane e altri grandi jazzisti, oltre a pubblicare capolavori a suo nome come Karma.

Il suo incontro con Sam Shepherd, in arte Floating Points, è stato abbastanza casuale: nel 2015, mentre Sanders era in macchina insieme a un discografico, ha ascoltato l’album di Floating Points Elaenia. Ne è rimasto talmente impressionato che ha chiesto di poter incontrare il suo autore. I due, come ha raccontato Hua Hsu sul New Yorker, hanno cominciato a frequentarsi: si incontravano nello studio di Shepherd a Londra e andavano insieme a vedere antiche sculture egizie al British Museum.

Promises, un disco di 46 minuti diviso in nove movimenti e pensato come un’unica traccia, è il frutto di questo incontro. È un album al quale è difficile accostare un solo genere, sospeso com’è tra jazz, ambient e misticismo puro. A tratti la musica, composta da Floating Points ma arricchita dall’improvvisazione del sassofono di Sanders, si rifà proprio a certi episodi dei dischi del jazzista statunitense; in altri momenti fa venire in mente il minimalismo di Steve Reich; in altri ancora fa pensare ad Ambient 3. Day of radiance, il capolavoro di Laraaji e Brian Eno. Nonostante i tanti strumenti usati – il sassofono, il piano, qualche sintetizzatore, un clavicembalo, e ovviamente gli archi dell’orchestra – si ha sempre una sensazione di leggerezza totale, come di fronte a un paesaggio celeste.

Il momento più commovente forse arriva nel quarto movimento, quando Sanders canta con la tecnica dello scat. È la voce di un uomo anziano che ne ha viste tante, ma somiglia anche al primo vagito di un bambino. Ma tutto il lavoro ha una forza emotiva trasfigurante, frutto di una composizione e di un’esecuzione di livello altissimo. Come detto, è difficile trovare le parole per rendergli giustizia, ma ce n’è una che fa capolino ogni tanto mentre lo si ascolta: capolavoro.

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