Tim Buckley: i suoi capolavori rimasti nascosti

di Riccardo Bertoncelli

Per un crudele scherzo del destino, due capolavori del Novecento rock giacciono nascosti da tempo immemore nel profondo della discografia. Parlo di «Blue Afternoon» e «Starsailor», gli album che Tim Buckley pubblicò all’apice della sua avventura artistica. Finirono in cd su una avara edizione nel lontano 1991 per essere presto tolti di catalogo e sparire per decenni – questioni di diritti probabilmente, una matassa da districare tra il gruppo Warner e il manager Herb Cohen. Da qualche tempo «Blue Afternoon» è riapparso, ma solo in un box poverello edito dalla Rhino in Europa (Original Album Series, ci sono i primi cinque lp di Buckley), mentre di «Starsailor» affiorano ogni tanto tracce in varie antologie, tutte imperfette. Nessuna seria rimasterizzazione (e dire che il suono è sempre stato uno degli elementi chiave dell’universo buckleyano), nessuna edizione critica con note e/o, puro sogno, inediti.

Il rock sa essere profondamente ingiusto, ma è la seconda volta che uso la parola «rock» e non sono così sicuro che sia la più corretta per questa storia. Tim Buckley in effetti è figlio di un decennio (sistemiamolo di traverso: 1966-75) in cui le musiche si mescolano, le gerarchie crollano, gli accostamenti orizzontali subiscono violenti bradisismi. Lui per esempio, precoce cantautore cresciuto nel mito di Hank Williams e del country, parte con il piglio del folksinger per accorgersi subito che la curiosità e la voce lo portano ben oltre il mondo del Village e di Newport. Subisce l’influenza di un altro della sua specie, Fred Neil, che gli spiana la strada con le sue ballate di miele amaro con accordi aperti, e poi vertiginosi raga folk. Quando sarà grande gli sfilerà una canzone favolosa, Dolphins; negli anni più giovani si ferma a emularne la voce, il basso profondo e gli arabescati melismi, accoppiandovi un esplosivo falsetto dal profondo dell’anima.

Con quella dote e con testi visionari, scritti con l’amico Larry Beckett, Buckley approda alla Elektra e prima che abbia compiuto ventun anni ha già due lp notevoli alle spalle, «Tim Buckley» e «Goodbye And Hello». Notevoli ma ingenui, e non precisamente suoi: il produttore Jerry Yester ha deciso che quel cherubino californiano deve abitare angoli luminosi di cielo, e gli ha cucito addosso arrangiamenti barocchi, tra Van Dyke Parks e il Donovan della prima maturità. Per fortuna Tim è un inquieto, oltre che un esigente, e si stacca subito da quel tutore per inseguire sirene tutte sue. Lo attira un certo jazz impressionistico, morbidi ritmi e timbri di vibrafono e chitarra, e su quel sogno modella il primo capolavoro, «Happy Sad», che fin dal titolo esprime il gusto di un viaggio al termine della malinconia per stillarne un succo voluttuoso. È quella una faccia dell’artista, in chiaroscuro come l’altra: le sfrenate pulsioni che si sfogano nel brano più impressionante del nuovo disco, Gypsy Woman, il rumore caotico e animale che preme ai confini della sua tenerezza e che di lì a poco dilagherà. Gli anni migliori di Buckley sono quelli tra il 1968 e il 1970, quando pubblica in rapida sequenza quattro album sconvolgenti (dopo «Happy Sad» vengono «Blue Afternoon», «Lorca», «Starsailor») e tiene apprezzati concerti anche in Europa – da uno show alla Queen Elizabeth Hall è tratto il suo live più bello, «Dream Letter», con una formazione che imbarca il grande Danny Thompson al contrabbasso. Tim ha abbandonato per strada il suo compagno di parole, scrive da sé i testi ma soprattutto è interessato a nuove forme di musica. «Sto muovendo oltre», annuncia in una intervista, «e probabilmente sarà molto, molto più in là di quel che la gente si aspetta. Ma so dove sto andando, vedo la strada». In «Blue Afternoon» la strada è ancora quella della canzone tradizionale, per quanto scossa da brividi profondi, con una intensità quasi insopportabile; «dedicato a Marlene Dietrich», quell’album rimodella lo schema di un folk rock struggente, a tratti straziante, con i gemiti della voce di Tim che si avvinghiano alla chitarra del luogotenente Lee Underwood, fino al parossismo. Gli estremi si toccano: ordine e caos, tenerezza e violenza, piacere e dolore.

Pochi mesi più tardi, «Lorca» è già un’altra cosa. Musica astratta, che sceglie il nudo e l’essenziale come forma radicale di sincerità; larghe tele di suono, sei-dieci minuti, con esperimenti vocali che ricordano le songs di Luciano Berio per Cathy Berberian e una spettrale trasformazione dell’originario folk rock – chitarre, percussioni ma anche desolate tastiere. «Starsailor», un anno più tardi, è della stessa specie, sebbene Tim sia tornato a disegnare in spazi più raccolti e a modellare qualcosa che ancora intende chiamarsi «canzone». Ma, se nel repertorio affiorano ancora radici legate al passato (Song To The Siren, il tema più bello e celebre), il senso del disco è vertiginosamente «altrove». Niente del rock gli assomiglia, né prima né dopo: piuttosto il jazz dei Coleman, Taylor, Coltrane scoperti per strada, piuttosto la demente saggezza di Ayler e il Sun Ra che in quegli stessi anni va cartografando in musica l’universo stella per stella, pianeta per pianeta – anche se non c’è nessuna Arkestra per Tim ma solo una sparuta band con il fido Underwood e i due Gardner nel giro di Zappa, Buzz e Bunk. Dicono che Leontyne Price, la grande soprano, rimanga incantata da uno show a New York ed esprima il desiderio che qualcuno scriva per la sua voce musica del genere. «Fai come ho fatto io», le risponde semiserio Buckley, «metti su un tuo gruppo». Nel migliore dei mondi possibili «Starsailor» sarebbe l’inizio di una grande avventura per platee sempre più numerose. Invece è un abbagliante unicum, il picco di una scogliera da cui in breve rotoleranno fama e senno. L’album non ha successo, gli ingaggi sono pochi, e se per la critica Buckley è un culto, il pubblico lo sistema nella gabbietta degli «eccentrici», fastidiosi quando non presuntuosi. Lui non capisce, si dispera, si deprime e passa i cinque anni successivi a distruggere quello che nello stesso lasso di tempo aveva messo insieme. Sembra che voglia punirsi, ha l’aria di uno che offra sarcasticamente al mondo la sua testa. Pubblica il più assurdo seguito che si potrebbe concepire, «Greetings From L.A.», un album funk in cui si immagina «nuovo sex symbol della cultura rock», e balbetta poi un altro lp incerto, «Sefronia», con l’aria di chi è troppo deluso per proporsi ancora sinceramente.

È sempre stato fragile, e ora che la scena gli ha voltato le spalle sembra ancora più vulnerabile; una preda perfetta per gli spacciatori che da tempo lo conoscono. Gli amici raccontano di pulsioni suicide, la madre ricorda la sua insoddisfazione per una musica ormai incapace di dargli gioia. Muore nel più stupido dei modi il 29 giugno 1975, sniffando una quantità esagerata di eroina da uno spacciatore che lo aveva sfidato a prenderne più che poteva. Ha pubblicato da pochi mesi un album con un titolo imbarazzante: «Look At The Fool», «guardate lo scemo». È stato l’ultimo sputo verso lo specchio, un penoso testamento rifiutato per fortuna da un pubblico saggio e fedele, che non faticherà a cancellare quel finale di partita ricordando le meraviglie prima, il luminoso arcobaleno happy/sad. A dispetto di tutto e di tutti, anche di lui medesimo, lo scemo è rimasto nei cuori e da lì continua a cantare la sua struggente blue melody, «such a blue / you’ve never seen».

Riccardo Bertoncelli | musica jazz

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