The Who celebrati con un monumentale cofanetto di cd
di Riccardo Bertoncelli
Gli Who sono ancora in giro, anche se metà del gruppo originale è da tempo nel regno degli spiriti e Pete Townshend negli ultimi vent’anni avrà scritto sì e no tre canzoni memorabili. I Who sono ancora in giro perché hanno radici di quercia, perché le canzoni composte e sfogate nei Sessanta e Settanta fanno ancora rumore e le storie che vi sono annodate sanno sempre affascinare. Così in questi mesi si è celebrato il cinquantunesimo (gli anniversari sballati sono ormai una regola in discografia) del primo controverso lp, che catturò la band nel momento del suo incazzoso sboccio, con tutto il corredo di forza, ingenuità, velleità, determinazione, ormoni in circolo. L’album era già stato rievocato nel 2002 con una deluxe edition in due cd, che in confronto a questa nuova edizione fa la figura del tascabile allegato a un quotidiano; stavolta i dischi sono cinque, in un elegante cofanetto con librone quello sì deluxe, e l’ultimo cd è un tesoro di provini dagli inesauribili archivi di Pete T., compresi tre inediti che, dice lui, ha recuperato di recente dopo esserseli scordati per più di mezzo secolo.
Per riavvolgere il nastro, quegli Who del 1965 sono giovani e implumi, assolutamente non esperti, ammirati solo da alcune decine di fissati con la black music che praticano i riti dei mods. Hanno due giovani manager che, per imperizia o ingordigia, chissà, prendono due quinti degli incassi e un produttore che ottiene un contratto capestro di sei anni concedendo la misera royalty del quattro per cento. Il produttore si chiama Shel Talmy, viene dagli Stati Uniti e sta spolpando alla stessa maniera i Kinks. Ha il pelo sullo stomaco ma buone orecchie, ed è il primo a capire che quei ragazzi sono speciali e dovrebbero uscire dalla nicchia dove si sono cacciati, incrementando i pezzi originali e lasciando perdere le cover. Nessuno la pensa come lui: né i discografici della Decca che rifiutano un contratto, proseguendo l’opera di autolesionismo iniziata con i Beatles, né i membri stessi del gruppo, che preferiscono giocare ai piccoli James Brown piuttosto che definire una propria identità. Talmy è però una testa dura, esce dalla porta ma rientra dalla finestra e un contratto lo strappa alla Decca americana, che in Gran Bretagna darà la licenza alla sottomarca Brunswick.
Siamo a gennaio del 1965 e gli Who pubblicano il loro primo singolo, I Can’t Explain. Si dovrebbe far festa, e invece no: Roger Daltrey, il cantante, capeggia la rivolta interna contro Townshend, accusandolo di voler copiare i Kinks annacquando l’originale spirito della band. I Who devono essere un commando blues, poche storie: I Can’t Explain è troppo leggera. Così, quando ad aprile i quattro si ritrovano in studio ad abbozzare il primo long playing, l’orologio torna indietro: i brani di Townshend fungeranno da puro contorno, il core dell’album saranno pezzi del grande repertorio R&B che soffia dall’America e ha già spinto lontano il galeone dei Rolling Stones: Otis Blackwell, Martha & The Vandellas, Eddie Holland, Bo Diddley, e naturalmente James Brown, il cascamorto di I Don’t Mind e Please Please Please, il cannibale di Shout & Shimmy.
I risultati di quelle sedute però non convincono nessuno. Gli Who sono dell’avviso che in scena suonano meglio e Talmy continua a soffrire le cover; anche perché Townshend ha una mano sempre più sicura e non per nulla una sua canzone, Anytime Anyhow Anywhere, viene pubblicata a maggio come secondo singolo (è la prima con effetti di distorsione, e bisogna lottare perché i tecnici e i discografici non correggano l’ «errore»). L’uscita del 45 permette al complesso di prendersi una pausa e di rimandare la questione dell’album all’autunno. Saggia decisione, e nel frattempo mille cose accadono.
Gli Who si staccano progressivamente dalla scena mod, sentono intorno le radiazioni del nuovo mondo emergente e si spostano di conseguenza. Sono attirati dalla pop art e cominciano a coltivare l’idea di una musica che sia pop in quel senso, non «leggera» ma «d’avanguardia» -– con le radici magari nell’amato mondo black ma la testa nel futuro delle nuove cose che accadono. «Noi viviamo pop art», spiega PT a Nick Jones in un’intervista per il Melody Maker, alla vigilia di My Generation. «Quando sbatto la mia chitarra sul diffusore lo faccio per motivi estetici. E il nostro nuovo singolo sarà decisamente pop art. L’ho scritto con quella intenzione. E il testo parlerà di gioventù ribelle, sarà contro la classe media, contro i boss, contro i giovani sposati». Quando ottobre arriva, Townshend ha accumulato tanta energia musicale da scoppiare. Talmy apre i microfoni e lui riversa una quantità irrefrenabile di idee, ben sostenuto dai compagni; Moon alla batteria è un rullo compressore, Entwistle un ragno spiritato, Daltrey un drago con alte lingue di fuoco.
I brani che registrano sono tutti originali, e alcuni di grande pregio: per esempio The Kids Are Alright, che con gli anni diventerà un classico, o The Good’s Gone, che qualcuno ha giustamente paragonato a See My Friends di Ray Davies – un raga rock nelle brume londinesi, con la risonante chitarra di Townshend che adatta ai suoi ormoni certe sonorità non solo Kinks ma anche Byrds. Il pezzo forte è naturalmente My Generation, un brano nato nell’estate e cresciuto lentamente, cambiando forma un po’ per volta. Nato come mid tempo secondo gli standard blues di Jimmy Reed («un Jimmy Reed di dieci anni con problemi di nervi»), ha acquistato forza e frenesia con il passare delle takes; e, dopo un avvio come puro strumentale, gli è cresciuto un testo di sfrontata bellezza, un inno all’invincibilità degli anni giovani – «spero di morire prima di diventare vecchio». Scriverà bene Andy Neill nelle note alla prima edizione deluxe che My Generation è un incrocio fra la canzone di protesta e il blues bianco, fra le pungenti ballate di Bob Dylan e Young Man Blues di Mose Allison: «Well a young man/ Ain’t got nothin’ in the world these days.» Con quel capolavoro l’album è finito e può finalmente vedere la luce. Talmy lo compone come un puzzle e, se come base prende i nastri delle sedute di ottobre, un posto lo riserva comunque a qualche cover della primavera: Please Please Please, I Don’t Mind, I’m A Man (espuntata però dall’edizione americana, per qualche accento troppo crudo del testo).
L’ottimo giornalista Townshend ha stilato alcune note per questa edizione del cinquantunesimo e per forza di cose ha abbondato con gli elogi, scrivendo che l’album e i materiali di contorno «hanno ingenuità e innocenza, semplicità e immediatezza, rammentandomi di com’ero.» Beh, quando all’epoca l’album fu pubblicato non la pensava proprio così. Era sul nervo, il fumantino Pete, perché sosteneva che il missaggio della batteria soffocasse il cantato. Mooney invece trovava che le cover di James Brown facessero schifo e, d’accordo con Entwistle, dubitava perfino di My Generation; mentre Daltrey, sempre duro e puro (forse anche un po’ invidioso della mano di Townshend), dopo I Can’t Explain aveva messo nel tritatutto Anyway, Anyhow, Anywhere. Anche la stampa, cosa credete?, mica gridò al capolavoro. Quando il Melody Maker recensì My Generation, il singolo, l’indecisione se non l’indifferenza suggerì una buffa via di mezzo: «Uno dei più controversi 45 di tutta l’annata… sarà un successo enorme o un terribile flop.» Il mondo è bello perché è vario. Migliaia di ragazzi, dall’altra parte del giradischi, presero la scossa e trovarono tutto stupendo. Con tutti i puntini sulle i che si possono mettere, cinquantun anni dopo il giudizio non è cambiato.
Riccardo Bertoncelli | musica jazz
Commenti
Posta un commento