L’angelo dell’Alabama | Il suono degli anni Novanta in “Wrecking Ball”, il capolavoro di Emmylou Harris

Nel 1975, fu amore a prima vista. Vorrei poter dire solo al primo ascolto, ma ad esser onesto quel volto angelico, un sorriso dolcissimo, i lunghi capelli neri e un fisico da modella (una delle sue prime attività per potersi mantenere) mi trasformarono in territorio di conquista fin troppo facile. E poi, quella voce cristallina, qualcosa di impossibilmente melodioso, un fraseggio perfetto, un senso di intimità e di amore infinito per i dettagli delle canzoni…

«I don’t wanna hear a love song…», la frase iniziale di Boulder To Birmingham eran di quelle che «scioglie il sangre dent’evvene, sai», come cantava il poeta. Ricordate i tempi: erano anni in cui il mio ascolto preferito erano cantautori, italiani e stranieri, e se oggi la ricerca è soprattutto nei confronti di ‘suoni’ interessanti, allora la bussola era settata su testi con un significato e voci che entrassero in contatto con la tua anima. E, prendendo una frase della sua collega bionda sull’altra costa, «surely you touched mine».

“Pieces Of The Sky”, il primo album “vero” (aveva già inciso un disco folk per un’etichetta finita in bancarotta) arriva quando Emmylou ha già 28 anni, un passato fatto di gavette a destra e manca, e una cicatrice profonda. Nasce a Boulder, Alabama, ma per seguire il padre (una carriera nei Marines e 10 mesi di prigionia nella Guerra di Corea) la famiglia girà un po’ dovunque, per attestarsi nella Virginia che confina con la contea di Washington DC. È lì che cerca di farsi una reputazione, facendo la cameriera di giorno (come migliaia di ragazze della sua età) e suonando la notte nei vari club della zona. All’inizio sono canzoni folk come quelle di protesta che sono nell’aria a metà degli anni sessanta, e le Child ballads, quel repertorio di origini anglo-irlandese che Francis James Child aveva raccolto sui Monti Appalachi. È una solitaria, incollata alla radio per sentire e imparare nuove canzoni folk, mentre si iscrive all’Università per studiare recitazione.

Ma che il talento sia un altro lo capisce presto, e allora ancora tavoli da servire, e folk club a NYC, quel disco che lei non calcola neanche fra i suoi, e finalmente l’incontro della vita. Una sera, nel club dove canta entrano Kenny Wertz e Rick Roberts dei Flying Burrito Brothers, la band che fonde country, bluegrass e r’n’r, il cui fondatore è un ragazzo ricchissimo di famiglia che ha scelto un’altra vita, motivato da una missione segreta, sdoganare la musica che ama, il country, presso il pubblico del rock. Due mondi veramente lontani, per tanti motivi: redneck contro rockers e hippies, 45 contro 33 giri, vecchia America della Bible Belt contro le città metropolitane delle Coste con vocazione internazionale.

Si chiama Gram Parsons, ha già portato i Byrds in quella direzione con “Sweetheart of the Rodeo”, ha fondato i Flying Burrito Brothers, e per il suo album solista è in cerca di una donna con cui fare coppia, “come Conway Twitty con Loretta Lynn”. Emmylou va a Los Angeles, canta sul suo album e lo accompagna in tour, sentendo che l’avventura sta risvegliando un genere musicale che «era sempre stato dentro di me, anche se dormiente». Gram la introduce ai padri fondatori: i Louvin Brothers, George Jones, Merle Haggard, quelli che nel conformismo di Nashville si distinguono per essere più profondi, più onesti nei testi, e che saranno i genitori di tutto l’altro country che verrà nei decenni successivi.

Belli, talentuosi, con la stessa missione, inevitabilmente è amore. Di quelli che faranno soffrire. Nel 1973, mentre sta incidendo il suo secondo solo, Gram, che ha anche una passione insana per le droghe (ottimo terreno comune col suo amico Keith Richards, che lo vorrebbe anche negli Stones, finchè Mick non pone il veto) muore di overdose di tequila e speedball una notte nel Joshua Tree National Park. Per Emmylou è una ferita quasi mortale, «come un’esplosione, cercavo di raccogliere i pezzi». Si aggira per gli USA senza saper bene che fare, quando su consiglio di un amico fa ritorno in zona DC, mette su una band e incontra un produttore, Brian Ahern, che sarà con lei per molti anni e molti dischi come riferimento e poi secondo marito di tre.

E siamo arrivati al 1975, a quel primo album, piuttosto costoso e lavorato per un disco country, generalmente incisi in due-tre giorni. Sono i semi dell’albero che Emmylou farà crescere, 26 rami/album a oggi in una carriera marcata dalla totale dedizione al lavoro, una maniacale difesa della qualità e dell’ispirazione, incurante – il più possibile – del lato commerciale e delle sue pressioni. Rimarrà una sua costante in tutti questi anni, la qualità sopra il costo, anche a costo di indebitarsi per avere i musicisti migliori e tempo di studio adeguato.

Emmylou ha un cuore grande e gentile, è adorata dai suoi musicisti, tanto che su richiesta della Warner Bros mette su un super band, che contiene James Burton e Glen D. Hardin (un ex-Cricket di Buddy Holly) che stan suonando con Elvis, tanto che le tappe del suo tour sono il più possibile simili a quelle del Re proprio per poter “usare” un paio dei suoi musicisti sui giorni off.

“Pieces Of The Sky” anticipa quella che sarà la linea, pochissimi brani scritti in proprio e una scelta di cover a volte conosciutissime, oppure recuperate in canzonieri dimenticati e riportate alla luce: Bob Dylan e Boudleaux Bryant (interprete di riferimento gli Everly Brothers), Charlie e Ira Louvin, Townes Van Zant, Lennon-McCartney, Chuck Berry e il patriarca della famiglia americana country per eccellenza, A.P.Carter, e tanti altri.

Ma non è nulla in confronto a quell’inizio con una acustica leggera, e una slide che entra gentilmente, come a non far troppo rumore fra i pensieri di quella giovane donna, già divorziata e con un bimbo, che un giorno aveva incontrato un angelo di quelli destinati a cadere. Come in una favola la corista era diventata una principessa, di più, la Musa. Come in un film alternativo di Hollywood, colonna sonora Cosmic American Music, come Gram la definiva. Solo che non era una di “quelle” favole, e allora… la slide scivola, e lei dietro… «I don’t really want to hear a love song / son salita su questo aereo solo per volare…». Immagine dopo immagine, i ricordi e i frammenti amorosi risalgono: «Cullerei la mia anima nel grembo di Abramo, terrei la mia vita nella sua grazia salvifica / andrei a piedi tutta la distanza fra Boulder e Birmingham, se solo pensassi di poter vedere il tuo volto / Mi hai davvero presa, questa volta, e la parte più dura è sapere che sopravviverò…I will survive…». Brividi. Lucciconi.

Dopo il successo di quel primo album ne vengono tanti, con regolarità annuale o quasi, Emmylou fedele a quel livello di qualità, ma non immobile sulla formula iniziale. Per quasi vent’anni la sua carriera si svela, rivelando una interprete di anima, che sa cogliere pepite d’oro da tanti giovani autori (come fa da molti anni una Fiorella Mannoia), e pescando anche nel grande patrimonio americano. Incide dischi controtendenza, uno di bluegrass, “Roses In The Snow”; con “The Ballad of Sally Rose” nel 1985 racconta, in una sorta di opera-country, la storia di una donna innamorata di un angelo caduto. Con Linda Ronstadt e Dolly Parton compone un trio dalle altezze vocali notevoli, e il successo è da numero 1. Quello è country per la grande platea pop.

Finché, a metà degli anni 90, confeziona un capolavoro. Forse il disco che avrebbe sempre voluto fare. Lei, sempre coraggiosa nelle sue scelte, ma pur sempre in un campo di gioco limitato, va oltre, fa un doppio salto mortale e atterra nel campo di Daniel Lanois. Canadese, new waver con Martha & The Muffins prima e poi musicista in proprio, è (con il solito Eno) il produttore più interessante e sperimentale di quegli anni. Ha lavorato con Bob Dylan, Peter Gabriel, gli U2. Praticamente il meglio. È un incontro sulla carta strano, di quelli che non sai se sarà un mezzo flop o un trionfo. Ma è la seconda che ho detto.

Lanois è un mago del suono, sa come rivestire un brano di suoni non di chitarra, anche se provengono da una chitarra: sono strati di eco, riverbero, aloni di elettronica che Emmylou riscalda con la sua voce stringata, quasi minimalista. L’album è come entrare in un bozzolo, in una stanza le cui pareti si muovono dolcemente col suono. Dilatato, atmosferico, denso. Dove serve, c’è Larry Mullen degli U2 a scandire con una ritmica, e non a caso, perché molto di questo suona U2. Non quelli tosti, da stadio, diciamo quelli più sperimentali, come anche il Peter Gabriel di “So”. Con una cantante, una riconoscibilissima cantante, anche se immersa in una nuvola di sonorità che ondeggiano e avvolgono.

“Wrecking Ball” si apre con ‘Where Will I Be’, dove sarò, un brano di Lanois che è proprio U2 al femminile, un basso potente, ritmo spezzato e una chitarra che echeggia, e la risposta è “da un’altra parte”. Il «Goodbye» (di Steve Earle) è un lungo addio, ipnotico. Il tono di Emmylou, che se appoggiato a chitarre, mandolini e slide si identifica totalmente con il country, in un altro setting cambia di molto: “Sweet Old World”, di Lucinda Williams (nel 1995 non ancora una delle cantautrice di ‘americana’ più famose) è una ballata country e suonerebbe tutt’altra cosa, qui scorre leggiadro con una ritmica che lo scandisce morbidamente, un armonica a immalinconirlo. “May This Be Love”, di Hendrix (!), irriconoscibile, è uno shoegaze evoluto, potentissimo, Mullen che accompagna con ritmo tribale lontano. La title-track è di Neil Young, che le fa i cori, e per una volta rimane in tonalità bassa, sopra c’è già Emmylou che gli chiede di portarla al “Wrecking Ball”.

Le altre canzoni sono del cantautorato vicino al country (Anna McArrigle, Gillian Welch, Steve Earle, non ancora famosi come adesso), ma c’è anche Dylan con ‘Every Grain Of Sand’, tratta da “Shot Of Love”, uno degli album del newborn Christian, che nel suo vocabolario visionario parla dello smarrimento, della ricerca, delle tentazioni sul cammino del risveglio spirituale «..nella furia del momento posso vedere la mano del Maestro, in ogni foglia che trema, in ogni granello di sabbia», e ha uno sviluppo circolare magnifico, Larry Mullen a scandirlo come fosse una marcia lenta.

Emmylou sostituisce il tono apocalittico di Dylan, ne dà una versione con spiritualità diversa, più sobria. Ogni brano è un gioiello, di atmosfera e di interpretazione. Uno dei migliori e misconosciuti album degli anni 90 (oddio, misconosciuto, il suo Grammy per miglior disco alternativo rock l’ha preso…). Con una grande personalità. Perché per quanto lontana dai suoi mondi precedenti, non c’è un solo secondo nel quale Emmylou non sembri, assolutamente e solo, Emmylou Harris.

Carlo massarini - Fonte | linkiesta

Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più