Jam spaziale | L’onda psichedelica degli Amon Düül II, contro i fantasmi della vecchia Germania

“Yeti” è un doppio album, il secondo (dopo “Phallus Dei”, titolo divino) degli Amon Düül II. È un album devastante, a partire dalla copertina, il volto del loro ex-percussionista Wolfgang Krischke (morto di ipotermia dopo essere svenuto in un bosco sotto l’effetto dell’LSD, venendo poi dilaniato dagli animali) raffigurato in una allegoria: la Grande Mietitrice in una nuvola di psichedelìa rosso fuoco.

È un album che nel 1970 mette sulla mappa una band, un movimento, una Nazione che è del tutto estranea all’asse anglo-americano dove si producono suoni. Questo, certifica ufficialmente la nascita di quello che verrà chiamato (dai giornalisti musicali inglesi, col solito snobismo, ricordate anche ‘spaghetti-rock’ per definire PFM e Banco? che schifo) il Krautrock. Dove i crauti stanno a indicare che si parla di quella Germania distrutta da una guerra da pazzi, dove – a parte un pop banale e inoffensivo chiamato Schlager – la musica che circola è quella dei vincitori. Krautrock – che per tutti peraltro suona anche come un falso storico, nel senso che raggruppare sotto un’egida gruppi molto ma molto diversi da loro (dagli Amon Düül ai Tangerine Dream, Dai Popol Vuh ai Can e Faust) – è, detta da un giornalista musicale, una eresia.

«Negli anni Sessanta in Germania abbiamo avuto un conflitto generazionale molto particolare. La generazione prima di noi aveva sperimentato il nazismo e la guerra. Dopo la guerra c’è stato un clima politico completamente diverso, ma in molte istituzioni, l’odore del vecchio era ancora presente. I bambini hanno chiesto ai loro genitori informazioni sulla guerra e sul nazismo e, soprattutto, il ruolo che loro avevano avuto; gli studenti hanno chiesto lo stesso ai loro insegnanti, ed è stato difficile ottenere risposte adeguate. Tra i giovani, gli artisti e gli studenti delle università c’era questo forte desiderio di libertà. Da questa situazione è nato un grande attrito tra il vecchio e il nuovo, che si è concluso in una rivoluzione culturale. Gli Amon Düül erano una parte di questo». (John Weinzierl, Amon Düül II).

Quindi questa è anche la storia di una rivincita non militare ma culturale, un voler recuperare dignità intellettuale, creatività futuribile. Di competere nello stesso territorio delle band che, in Inghilterra e ancor più America, in quegli anni stanno creando il nuovo, sperimentando su cento strade diverse, entrando in territori senza mappe, con la voracità di chi per la prima volta ha visto la luce. L’imperativo è libertà, arte senza confini, estrema, non-commerciale.

Parallelamente, c’è anche il desiderio di trovare una nuova way of life. Fuori della società, o meglio in una società diversa. Partendo dalla sub-cultura artistica, e dall’underground. Son due cose che fin dall’inizio legano gli hippies, i movimenti alternativi di San Francisco e i musicisti più acidi (che non sono solo a San Francisco, ma insomma, lì ce n’è una bella densità) a questo gruppo di ragazzi di Monaco di Baviera, studenti intellettuali e musicisti, che si sono organizzati in una Comune, chiamata Amon Düül II, laddove Amon è il dio del sole nella mitologia egizia e Düül II è un riferimento in turco ai cicli lunari. È una Comune artistico-politica, vicina alla Comune Politicizzata Kommune 1, la prima fondata in Germania, e abbastanza estrema in alcuni elementi che passeranno poi in clandestinità nella RAF, la Rote Armee Faction, non lontana come obiettivi e azioni dalle Brigate Rosse.

La parte artistica, invece, si pone obiettivi più pacifici: «Siamo undici adulti e due bambini riuniti per realizzare tipi diversi di espressione, anche musicale». L’idea è quella di sperimentare una vita d’insieme, che sia inclusiva, una sorta di famiglia allargata ante-litteram, che sia anche una fabbrica di creatività. La musica che viene suonata non ha mire commerciali, è molto libera, privilegiando entusiasmo sopra abilità artistica (idea che poi tornerà a galla col punk dieci anni dopo), e improvvisazioni ‘free’, facendo performance negli happening e dimostrazioni al fianco dei movimenti giovanili del tempo. Presto si divideranno in A.D.#1, quelli che avrebbero voluto ma non sanno suonare (che comunque in un pomeriggio incidono abbastanza musica per alcuni album di folk psichedelico), e gli Amon Düül II, che invece non solo sanno suonare, ma vogliono suonare qualcosa di nuovo. Di diverso.

Inventarsi una fusion che non sia sull’Oceano Atlantico, ma sul Reno. Che sia da una parte tedesca, mittleuropea, con quella grandiosità, quella pompa magna, quel senso di gotico, di mitologico. E che dall’altra parte inglobi il rock e tutto ciò che ne consegue: la psichedelìa di Hendrix e dei gruppi di Frisco, Jefferson e Dead e Quicksilver Messenger Service su tutti. Ma anche, quasi un ossimoro che ci sta, quel folk-rock psichedelico e organico alla Incredible String Band, l’acido e il visionario insieme.

Il leader è Christopher Carrer, chitarrista/violinista/sassofonista e cantante innamorato di John Coltrane, Ornette Coleman e Jimi Hendrix, a lui si aggregano Peter Leopold (batteria), la cantante Renate Knaup (molto più diabolica del suo ipotetico alter-ego americano Grace Slick), Falk Rogner (tastiere), Johannes Weinzierl (chitarra), Christian “Shrat” Thierfield (bonghi, violino), l’inglese Dave Anderson (basso), Dieter Serfas (percussioni).

“Yeti” è un disco imponente, come le sinfonie Wagneriane che riemergono cento e più anni dopo, a dare corpo ed epica a musica che no, non è classica. E allora, cos’è? È un melting pot che non nasce a New Orleans, né a Frisco, ma a Monaco di Baviera. Come una balena che apre le fauci e ingoia tonnellate di musiche di ogni genere e le riemette digerite e nuove: elementi di hard-rock e arie medio-orientali, violini tzigani e raga indiani, grandi muraglie sonore di chitarre, un basso mixato alto che risuona come un gigantesco sound system, sintetizzatori e distorsioni, percussioni che sottolineano e/o vanno per la tangente, ritmi e atmosfere tribali e psichedelìa acidissima, free jazz e blues allucinogeni, progressive e vocalità recitate, urlate, operistiche. È un gigantesco collage sonoro lisergico, una jam spaziale, o forse nelle viscere della Terra, che unisce il Cosmico con il Caos, il mistico con il luciferino. E se vi sembra impossibile, ricordate che in quegli anni nulla è impossibile, la voglia iconoclasta e sperimentale delle band al virar del decennio è feroce. E se vi sembra che non possa funzionare, beh, funziona. Eccome.

L’album ha una metà strutturata (si fa per dire) e una improvvisata. ‘Burning Sister’ è il primo dei quattro movimenti della suite ‘Soap Shop Rock’, e apre la cavalcata in una modalità acid-folk-rock alla Jefferson Airplane, i due cantanti aggrediscono lo spazio e il tempo, cantando in tedesco (lui) e inglese (lei) una storia di un sogno (spero) in cui vede la sorella al rogo consumarsi nelle fiamme, accusata di essere una strega, mentre la batteria rulla da tutte le parti e una chitarra distorta alla John Cipollina volteggia tutto intorno. In “Hallucination Guillotine” (un nome un programma) un duetto in stile operistico e un violino del diavolo gonfiano il clima di rabbia e, in un delirio da sabba infernale, un assassino è rinchiuso, mentre si aggirano ragazzi intossicati e professori di paranoia, e tigri pazze con fumo che esce dagli occhi gli leccano le mani. Il film è partito, signori, e non sarà un trip per cuori e menti deboli.

Dopo i 14’ dell’apertura, le restanti (di studio) sono eclettismo puro: c’è ancora la potenza di un rock formato tsunami, ‘sporco’ ma molto simile a un wall of sound (non PhilSpector-esco ma da Valhalla), ma anche folk mediterraneo con bonghi e altre percussioni, che a poco a poco diventano cosmici, viaggiando in nuvole di leslie (‘Cerberus’). Ci sono strumentali di tessiture elettroniche che potrebbero essere stati su ‘Low’ di Bowie se invece che a Berlino si fosse trasferito a Monaco, in una bella comune invece che in uno spoglio appartamentino. Costruzioni simili al folkrock alla Jethro Tull suonate però come gli Stooges di Iggy, un effetto veramente bizzarro (‘The Return of Rubezahl’). Insomma, fra un’ondata e l’altra sono altri 20 minuti da rimanere fra il tramortito e l’innalzato.

Poi, arrivano le due improvvisazioni, ‘Yeti’ e ‘Yeti Talks to Yogi’ (…with who else? verrebbe da aggiungere). La prima sono 18 minuti in cui un raga (alla ‘The End’ dei Doors) a poco a poco gonfia i muscoli, poi li rilassa, poi fugge in altre direzioni mentre incendiarie chitarre distortissime si alzano nel cielo, e infine scivola verso un finale (quasi) placido, inevitabilmente sfumato (quanto durava tutto?). La seconda è più cupa, una jam cacofonica e dark. Dopo questa dose di elettricità, suoni al limite del delirio, si chiude con un saluto all’azienda che scoprì e brevettò negli anni 50 l’LSD, ‘Sandoz in The Rain’. Un’improvvisazione di nove minuti che trova Amon Düül 1 e 2 riuniti per un ultima volta, che inizia con un folk di vago sapore arabeggiante, e lentamente si alza sulle ali del flauto, fondendo psichedelica e esotismo, addentrandosi in reami interiori sconosciuti ai più.

“Yeti” nella sua interezza è un disco minaccioso, che non ti lascia tregua, che ti insegue appena percepisce che ti stai distraendo, o allontanando. Porta a una vera lotta fra parti di sé, travolti da una musica che non è niente (di conosciuto) ed è tutto (quello che avete mai sentito). Album non solo originale, ma anche momento di nascita di generi legati allo space-rock, sia nella sua versione dronica, apocalittica, che in quella più cosmica, pastorale. Come tutte le cose estreme e pericolose, può regalare anche momenti di estasi altrimenti irraggiungibili.

P.S. Ultima cosa: questo non è un album, un file, da metter su nel momento sbagliato. Non è per quelli che sentono la musica in modalità «tanto per non sentire il traffico». Se avete voglia di sentirlo, preparatevi. Richiede tempo (son 70’, e vale la pena farseli tutti), e un po‘ di logistica: un bello stereo o che altro potente, tenete alto il volume, se lo abbassate vuol dire che siete fifoni, e non mettetevi a scrollare WhatsApp. Dite a parenti o amici o chi non viene con voi che avete un attimo da fare. Che andate fuori un’oretta. Fuori? Sì, poi torno. Non sapranno che fuori sarà, ma non importa. Fuori vuol dire tante cose. Fatevi un drink o che so io, e partite. Quando siete arrivati, mandatemi un messaggio, e raccontatemi com‘è andata.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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