Roy Harper: un uomo e un mito
di Riccardo Bertoncelli
A volte la definizione «artista di culto» assume sfumature beffarde. Roy Harper è un artista di culto: il suo nome non manca mai nei tomi di musica alternativa, è stimato amico di potenti rocker come Jimmy Page, McCartney, David Gilmour; eppure fece passare tredici anni da quando pubblicò l’ultimo cd, di cui non dico il nome perché sfido i lettori, anche uno solo, a ricordarne il titolo. Per fortuna è cresciuta una generazione di musicisti che hanno davvero amore per il passato, specie se minore ed eccentrico, e dei cult artists sanno cosa fare. Così uno di loro, Jonathan Wilson, venerato maestro di futuro remoto, ha travolto Roy con il suo entusiasmo, lo ha portato nel suo studio a Laurel Canyon e lo ha convinto a riprendere il discorso interrotto nel 2000.
L’album uscito nel 2013 si chiama «Man And Myth» e solo due spunti per introdurlo: il titolo, che seppellirebbe di ridicolo quasi tutti, sta semplicemente bene, e le canzoni non hanno bisogno di neanche un soffio di iperboli e gas promozionale per imporsi – sono puro Roy Harper, punto e basta, la materia preziosa e originale che il nostro uomo ha sempre dispensato nella sua lunga vicenda.
Harper ha 76 anni e fa musica da quand’era un ragazzo disadattato a Manchester, allora tutt’altro che Madchester, al massimo Sadchester. Aveva una matrigna testimone di Geova che gli inculcò orrore anziché devozione per la religione e, mescolando quello con il carattere ribelle, la vis polemica e il gusto per musica e letteratura, il giovane Roy sbandò a modo suo verso l’arte. Amava il jazz, ma scoprì presto che quegli accordi erano troppo difficili per modellarli in forma di canzone e adagiarci le lunghe infervorate poesie che gli veniva da scrivere; e poi suonava la chitarra, uno strumento che dopo Parker e Coltrane era finito ai margini della scena, e dunque non fu mai jazzista ma semmai folksinger, parola molto elastica, nel suo caso tirata proprio come un chewing gum. Girò l’Europa dei primi Sessanta come musicista di strada, poi si stabilì a Londra e si acquattò nei piccoli club dove si suonava acustico e folk. La sua tana preferita era il Les Cousins di Greek Street, un locale frequentato da nobili parenti come John Martyn, Bert Jansch, John Renbourn, Davey Graham, tutti stimolati dall’esempio del Greenwich Village eppure così diversi, con tratti orgogliosamente Brit. Dopo qualche esibizione lo scoprì una piccola etichetta, la Strike, e per quella debuttò nel 1966 con «The Sophisticated Beggar». Roy voleva essere davvero così, «un sofisticato accattone», che usava la chitarra non per «ammazzare i fascisti» o inveire contro i masters of war ma per raccontare con libero spartito le storie che gli giravano intorno, i moti del cuore, le inquietudini della sua mente.
Il tumulto dei tempi lo aiutò a salire di livello, e il secondo «Come Out Fighting, Gengis Khan» lo pubblicò con la Cbs e un produttore di vertice, Shel Talmy, mister Kinks. Non vendette molto ma si fece notare, e sfruttò l’indulgenza dei tempi, che concedevano libertà e fantasia. Continuò con il pregevole Folkjokeopus, ogni volta marchiando i suoi dischi con segni originali: come certe elucubrazioni oltre i dieci minuti (Circle, McGooghan’s Blues) in cui spezzava la tradizionale forma canzone con divagazioni, parlati, rumori di fondo. Nel 1970 passò alla Harvest, il laboratorio creativo della Emi, il refugium peccatorum dove finivano gli eccentrici e gli spaiati della scena – i Kevin Ayers, Syd Barrett, Pete Brown, Michael Chapman (ecco un altro parente), le Shirley Collins. Lì rimase per buona parte dei Settanta, fino a quando continuò a circolare aria buona ai piani alti delle majors. Registrava a Abbey Road nei ritagli di tempo di nomi più affermati, ma la cosa non gli pesava. In fondo erano generosi, gli consegnavano una fiche all’anno e lui se la giocava bene, scrivendo in libertà, collaborando con bei nomi dell’aristocrazia Brit: David Bedford, i Nice, David Gilmour, John Paul Jones, Bill Bruford e Jimmy Page, che in «Stormcock» si nasconde dietro l’aulico pseudonimo di S. Flavius Mercurius. Ecco, se tra tutti quegli album dovessimo isolarne uno, Harper per primo sceglierebbe «Stormcock»: un affresco di soli quattro imponenti brani, un album forte e influente – «il fratello maggiore e più cattivo di “Hunky Dory” di Bowie», come disse tranciante Johnny Marr.
Nessuna classifica di vendita ha mai ospitato un album di Harper, siano i sette della Harvest o la mezza dozzina degli altri. Eppure Roy può vantarsi di essere passato per i giradischi di milioni di persone, e neanche una volta sola. La prima fu nel 1970, quando gli Zeppelin lo onorarono sul terzo lp con un divertente stomp blues intitolato Hats Off To (Roy) Harper; era il loro modo di esprimere gratitudine e ammirazione a un amico per niente glamorous, ma quanto influente. La seconda volta fu nel 1975 quando, per venire a capo di un brano che non riuscivano a chiudere, i Pink Floyd – impegnati allo studio 3 di Abbey Road – andarono a bussare dal vecchio amico, immerso in «Hq» allo studio 2. Harper non si fece pregare e cantò perfettamente Have A Cigar, per la sua eterna gloria e il perenne sconcerto degli ascoltatori (Roy chi?).
Con il 1980 si interruppe la collaborazione con la Harvest e svanì un mondo. Molte orecchie si chiusero, le teste dei discografici rimpicciolirono. Harper si sentì di colpo un sopravvissuto, un fossile di un’altra epoca. Sulle prime reagì continuando a incidere come se nulla fosse, senza indossare i vestitini delle mode, poi piano piano lasciò la presa. Nel 1990 si trasferì in Irlanda, come a volersi emarginare, e diradò le uscite fino a quel disco che ancora non ho nominato – «The Green Man», 2000.
Chissà come sarebbe finita, se Wilson non si fosse impegnato a tirarlo fuori dalla tana. Da vecchio, Harper si vedeva solo archivista del suo bellissimo segretissimo repertorio. Aveva raccolto tutti i testi, e memorie, e commenti, in un bel volumone, The Passions Of Great Fortune, preparava con cura l’edizione digitale dei suoi introvabili lp e compilava antologie dei più diversi tipi; la più recente, «Canzoni d’amore e di lutto», l’ha pubblicata la Salvo e gira anche da noi.
Invece no, per fortuna, nessun addio, e la festa che nel 2011 alla Royal Albert Hall ha salutato i suoi settant’anni, presenti Page e altri amici famosi, più che un «ultimo valzer» pare oggi la intro di un’inattesa appendice. Iniziato nel 2009 e rifinito senza fatica (la Musa di Harper è sempre stata generosa), «Man And Myth» è disco vero, di grande suggestione, il maturo meditare di un vecchio cantastorie che racconta le sue pene e le sue gioie, che ricorda e invoca l’amore, che mitizza la sua condizione di esiliato «perché oggi tutti prima o poi sono ostracizzati». La voce è struggente, come quella di un Tim Buckley a cui gli dei hanno concesso di invecchiare; e la musica che la accoglie ha il gusto della mutevolezza, può essere soft alla Dire Straits come in The Exile o incalzante come in Cloud Cuckooland (con la chitarra di Pete Townshend), può comporsi in misure precise e «normali» o perdersi fuori schema e fuori tela come in Heavens Is Here, che ripropone i felici viaggi degli anni giovani verso il quarto d’ora.
Ognuno ha un suo Roy Harper preferito, e il mio è quello che depone gli slanci, le sfide, le esuberanze per ritirarsi in una stanza appartata della mente e uscirne con canzoni intime come The Stranger, Time Is Temporary, January Man. Il miele dolce della chitarra acustica, la punteggiatura sottile degli archi. Un Nick Drake con la voce di Fred Neil, che con abbandono distilla goccia per goccia i ricordi di una irripetibile vita.
Riccardo Bertoncelli | musica jazz
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