Natural woman | Con Tapestry, Carole King ha creato il modello della cantautrice anni 70

Questo è l’album con cui non solo Carole King reinventa la sua carriera, ma quello che crea il modello di “cantautrice anni 70” (insieme a Joni Mitchell). Non una cosa da poco per questa ragazza newyorkese, autrice pop di primo livello per molti anni, che emigrata a Los Angeles decide a 31 anni di uscire dal meccanismo “scrivo solo per altri” e comincia a cantare le sue stesse composizioni. 

Quello che è evidentemente un desiderio esistenziale e artistico si trasforma in qualcosa che va aldilà di ogni aspettativa, i numeri (al femminile) raccontano qualcosa di indiscutibile: primo posto in classifica per 15 settimane consecutive, record superato solo 22 anni dopo da Whitney Houston; nei top 200 per 318 settimane (ci vorranno 46 anni perché Adele la superi), 25 milioni di copie vendute. Vien da chiedersi come prima cosa: come è stato possibile? Qual è stato il segreto?

Che Carole Joan Klein abbia un talento naturale è chiaro da subito, in famiglia. Nasce a New York nel 1937, alla fine della Grande Depressione, genitori fidanzati fin dai tempi del Brooklyn College. Papà vigile del fuoco e mamma casalinga per necessità, appassionata di musica. È lei che intuisce che la bambina ha un dono, l’intonazione perfetta, indovina le note ascoltandole per un attimo, e a quattro anni comincia a insegnarle un po’ di rudimenti del pianoforte, così che possa suonare le canzoni che sente alla radio. 

A diciassette anni, dopo aver cambiato in King il nome, tipicamente ebreo, si sposa con un compagno di Università, Gerry Goffin, e con lui crea una partnership autorale di quelle che rimarranno nella storia del pop. Nel 1960 scrivono ’Will You Still Love Me Tomorrow?’ per le Shirelles, primo #1 per un gruppo femminile nero. La sequenza di hit negli anni è notevole, fra i tanti ’The Loco-Motion’ (affidata alla loro babysitter Little Eva), ’Pleasant Valley Sunday’ per i Monkees, ’One Fine Day’ per le Chiffons, ’A Natural Woman’ per Aretha, ’Up On The Roof’ per i Drifters, ’Goin’ Back’ per Dusty Springfield, ’Wasn’t Born To Follow’ per i Byrds. 

Quando nel 1968 la fase (e il matrimonio #1, ce ne saranno quattro) della sua vita finisce, Carole si trasferisce con le due figlie sull’altra costa. A Los Angeles si mette in gioco come performer, in un trio con Danny Kortchmar alla chitarra e Charles Larkey al basso. Il trio non dura molto (Carole non è ancora a suo agio di fronte al pubblico), rimarranno l’amicizia con Danny che diventerà uno dei turnisti di extra-lusso della scena di L.A., e un matrimonio con Larkey (che durerà anch’esso poco). 

Sono gli anni di Laurel Canyon, di una scena losangelina stracolma di talento, e qualcosa sta cambiando nell’aria. La psichedelìa e Woodstock e l’anti-Vietnam e tutta la controcultura hanno spinto le ribellioni e la stessa musica agli estremi, si sente forse la necessità di qualcosa di personale (che già CSN hanno portato in primo piano): di sentimenti, di intimità, è la vena che ha introdotto Joni Mitchell, che di tutte le cantautrici della città degli angeli è quella che tira la volata. 

Carole diventa amica di Joni e di James Taylor, i due amanti che hanno appena pubblicato due album che illuminano la strada da seguire e scaldano il cuore: “Blue” e “Sweet Baby James”, siamo in zona ’dischi storici’. Carole nel 1970 incide un primo album, “Writer”, nel titolo quasi un’affermazione di identità: ma al ’songwriter’ manca ancora la ’singer’, e non è poco. Il disco, a cui Taylor collabora, va benino, ma niente di che. Una sorta di prova generale.

È il febbraio 1971 quando esce il suo secondo album, e qui il film è di molto diverso. Forse il momento storico è giusto, sicuramente le canzoni sono migliori, magari le stelle sono finalmente allineate: “Tapestry” è uno di quegli album che segnano un’epoca, sbancano le classifiche, creano con la loro sconfinata popolarità un modello, un genere. Carole ha dentro di sé un tocco, una sensibilità pop straordinaria, che in fondo non è sorprendente considerato il suo passato e le sue frequentazioni con il mondo dei top ten. 

Le sue canzoni sono accessibili, cantabili, praticamente un album fatto di tutti potenziali singoli. Non basta a spiegare l’enorme impatto che ha sulla scena. Credo bisogni aggiungere che la sua voce, intonata (come potrebbe essere altrimenti?) ma non particolarmente potente, riconoscibilissima ma non rotonda, piena, anzi un po’ acerba, da ragazza, convoglia una onestà che splende anche nel firmamento pop. 

La sensazione è così personale, così intima, che hai la sensazione che la giovane donna parli di sé, senza troppi veli, con una sincerità disarmata e disarmante. Sembrano davvero le sue storie, e lo sono, persino quelle due perle del suo canzoniere che reinterpreta: gli alti e bassi dell’amore non valgono sempre, per qualsiasi amante, matrimonio e incontro pieno di sogni?: ’Will You Love Me Tomorrow?’ e soprattutto ’(You Make Me Feel Like) A Natural Woman’ –quest’ultima una canzone perfetta, che nelle corde vocali di Aretha era diventata un capolavoro soul – cantata da lei prende un tono più fragile, più devoto.

Ma sono altre le canzoni che creano l’eccitazione: il ritmo di ’I Feel The Earth Move’ in apertura, grandi musicisti dietro (Russ Kunkel alla batteria, il marito Larkey al basso, ovviamente ’Kootch’ alla chitarra elettrica e Taylor a quella acustica, cori cortesia di Joni, sono gli stessi che nello studio accanto stanno incidendo “Mud Slide Slim And The Blue Horizon”): «Sento la terra che si muove, sento il cielo che casca giù/ Sento il cuore che comincia a tremare quando tu sei qui vicino…». 

Poi comincia una sequenza di quelle canzoni malinconiche, un po’ sognanti e un po’ tristi, una vena di solitudine a percorrerle, che saranno poi la sua cifra essenziale: ’So Far Away’, la sensazione di smarrimento quando la persona che vuoi è lontana, e anche tu sei condannata a una vita sulla strada: «Ma nessuno rimane più in un posto solo?…/Spero che la vita sulla strada non mi possegga…». 

La voglia di tornare a casa in ’Home Again’, e un auto-convincimento di positività, di ottimismo in ’Beautiful’: «Ti devi alzare ogni giorno con un sorriso sul volto, e mostrare al mondo tutto l’amore nel tuo cuore/allora la gente ti tratterà meglio, e capirai che sei bellissima, quale tu ti senti…». Il sogno di un posto migliore (anche se non dettagliato e poetico come saranno le descrizioni di Jackson), ’Way Over Yonder’: «Là, oltre, c’è un posto che conosco dove trovare riparo dalla fame e dal freddo …/Quando ci arriverò, so che la prima cosa che vedrò sarà il sole che splende, e perderò tutti i miei guai».

Ma le canzoni che si infilano sotto pelle, quelle che lentamente si mischiano con i tuoi sentimenti e ti rimangono dentro sono due. La prima, ’It’s Too Late’, subito al #1 dei singoli, è venata di tristezza e disillusione nel momento di fare il punto su un amore che sta finendo…

«Stata a letto tutta la mattina solo per passare il tempo
C’è qualcosa che non va, non ha senso negarlo
uno di noi sta cambiando, o forse abbiamo solo smesso di provarci
E’ troppo tardi, baby, troppo tardi
Nonostante c’abbiamo veramente provato
Qualcosa dentro è morto, e non lo posso nascondere, né fingere…».

La seconda, di cui James Taylor farà una versione ancora più intima e posseduta, è ’You’ve Got A Friend’, una di quelle canzoni che commuovono, uniscono, confortano, danno forza:

«Quando ti senti giù e pieno di guai
e hai bisogno di amore e cura
E niente, niente va per il verso giusto
Chiudi gli occhi e pensa a me
E presto sarò lì,
A illuminare anche la tua notte più buia…
…Se il cielo sopra si scurisce e riempie di nubi
E quel vecchio vento del Nord comincia a soffiare
Tienti forte e chiama il mio nome ad alta voce
Presto mi sentirai bussare alla tua porta…
…Ora, non è bello sapere che hai un amico
Quando la gente può essere così fredda?
Ti feriranno, e ti abbandoneranno
Ti prenderanno l’anima, se glielo consenti
Tu non consentirglielo…
…Tu chiama il mio nome,
e sai che dovunque io sia
arriverò di corsa per rivederti
Inverno, primavera, estate o autunno
Tutto quello che devi fare è chiamare,
e io ci sarò, sì ci sarò
Tu hai un’amica…».

Per parafrasare il titolo dell’Lp, è una tessitura preziosa, una scrittura semplice e senza metafore o ricercatezze superflue. Il modo di raccontare i sentimenti di Carole è lineare, non ha retropensieri o divagazioni che creino un quadro più complesso, nel quale magari perdersi. Hanno quel sapore homey, di casa, esattamente come la foto, una giovane ragazza a piedi nudi, una piccola tapestry in mano, il gatto Telemachus che fissa incuriosito anche lui l’obiettivo.

Sono immagini o brevi film nei quali chiunque si può riconoscere, facilmente, senza sforzo. Questo, e le sue linee melodiche allenate da una vita davanti a un pianoforte a scrivere hit, sono il segreto di un album che viene abbracciato da tutti come pochi album prima, o dopo. il suo valore emotivo, diretto e sincero, ancora vivo quasi cinquant’anni dopo.

Carlo massarini | Fonte linkiesta

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