Musica delle paludi | Ascoltare tre album dei Creedence Clearwater Revival per capire le radici della musica popolare americana

Non è facile scegliere un solo album dei Creedence Clearwater Revival fra quei cinque (5!) che pubblicano in soli due (2!) anni, fra il 1969 e il 1970, tutti dischi di Platino. La tentazione sarebbe quella di procedere con un Best Of, per esempio “Chronicle: 20 Greatest Hits”, che contiene tutti singoli, i fantastici singoli dei Creedence: una stringa di ben sei 45 giri Top5 consecutivi, con un bonus extra, erano tutti double-sided, cioè doppia facciata A (come avevano spesso fatto quelli traboccanti di creatività, vedi i Beatles); e con una “maledizione”, arrivarono tutti (solo) al no.2. Troppo facile, direte, ma chiunque voglia procedere così, fa una ottima scelta. Però c’è quella triade di Lp in particolare, “Green River”/”Willie and the Poor Boys”/”Cosmo’s Factory”, che è uno sguardo ancor più dettagliato su quella che era l’essenza, la filosofia, e il serbatoio da cui John Fogerty pescava, e cosa era il risultato della sua rielaborazione. 

Perché qui il tema è roots music, le radici della musica popolare americana, dal gospel al r’n’r/rockabilly, dal r’n’b al blues, dal soul al country. John Fogerty, l’uomo solo al comando del quartetto, che include il fratello Tom e la ritmica di Stu Cook e Doug Clifford, l’ha sintetizzata in un suono che è in miracoloso equilibrio fra tutti gli ingredienti. Un rock’n’roll a volte pompatissimo, misto con ballate assolutamente incantevoli. Quando accoppi qualità e vendite c’è da gridare al miracolo – senza esagerare – e se questa contaminazione aveva un odore, un sapore, una iconografia, era quello della cosidetta swamp music. 

La musica della paludi della Louisiana, musica del Sud, calda e verace, un mix di rockabilly, blues, zydeco, soul music. I CCR hanno creato, con titoli come ’Born On The Bayou’ e con cartoline illustrate dal Mississipi come ’Proud Mary’, una iconografia sudista che viaggia fra la Stax di Memphis e New Orleans. Sano e robusto country-rockabilly-soul-r’n’b-rock, con testi spesso di rilevanza sociale, che ha sbancato le classifiche di tutto il mondo. Unica cosa, i Fogerty non venivano dal Sud, ma da El Cerrito, California. E John non aveva mai visto i luoghi a cui si ispirava, che la gente inevitabilmente pensava fossero i suoi, non si è neanche spinto oltre il confine della California, tranne i due anni militare in Montana. Un caso di “salgarismo” musicale eccezionale. Paradossale. È il bello del rock: vale tutto.

Dopo una bella gavetta prima come Blue Velvets e poi come Golliwogs (un nome orrendo infertogli dal loro discografico senza neanche informarli), la Fantasy cambia padrone e il nuovo, Saul Zaentz, impone di cambiar nome, fortunatamente. Quello che suggerisce la band è composto dal nome storpiato del loro amico Credence, il payoff di uno spot Tv per una birra (’clear water’), e quello che i quattro pensavano della loro musica. Va detto che i Creedence nascono e partono in totale controtendenza con tutto il resto. 

Il primo disco, 1968, non ha nulla del sound del momento, chessò, il blues psichedelico o il rock-blues, il sound west-coast o il garage-rock. Il primo singolo, Suzie-Q, nella loro versione il capostipite dello swamp rock, è un vecchio rockabilly del 1956 di Dale Hawkins. L’unico punto di contatto con le psych-bands della Baia (Jefferson, Dead, Quicksilver) sono le lunghe jam, quello strecciare i pezzi oltre i 6-8-10 minuti, ne metteranno sempre almeno uno in ogni album. 

Per il resto, dalla maniera di vestire, jeans e camicie da boscaiolo a quadroni, alla determinazione a mantenere la maggior parte dei loro hit sotto i tre minuti, i Creedence non sono fashion, alla moda. Si trovano in un curioso paradosso: sono alternativi (quantomeno a quello che c’è in giro, dagli psichedelici ai cantautori), ma non vengono considerati alternativi. Non nel senso cool dell’epoca. Vengono considerati ’commerciali’, tutti quei singoli da due minuti e mezzo in classifica, e non hanno alcun credito –anzi, parecchio veleno- presso la controcultura, che influenza buona parte della musica americana. La musica è fatta veramente di cicli, però: qualche decennio dopo, John Fogerty diventerà l’eroe di quel genere evolutosi mischiando rock, folk, country e blues che è “l’Americana”. 

Il primo dei tre album che menzionavo all’inizio è il loro terzo, quello che sigilla il loro sound. La title-track ’Green River’, insieme a ’Proud Mary’ (sull’album precedente), è il prototipo di tutti i brani densi, medio-veloci, pulsanti. Il titolo viene da una bevanda che John beveva da ragazzo, sciroppo di lime acqua frizzante e ghiaccio, mentre il luogo non è il solito fiume della Louisiana, ma il ruscello Putah Creek, California, dove andava in vacanza con la famiglia. 

La voce di John, un drawl un po’ strascicato un po’ aggressivo, con esplosioni da shouter, va di pari passo con una ritmica a contrappuntare un sound semplice ma compattissimo. Di singoli “Green River” ne contiene un altro, ’Bad Moon Rising’, che dietro la musica allegra rivela i fantasmi di Fogerty, tipo “spero tu abbia organizzato la tua roba/ e che tu sia preparato a morire”. Lodi (pronunciato Lo-dai) ne è la facciata B (come al solito), ed è un’altra perla, questa parla di un vecchio musicista che non è più a suo agio nell’ambiente che non lo considera, e vorrebbe andarsene da Lodi, un paesino californiano che, come al solito, Fogerty non ha mai frequentato (’ma il suono della parola era cool’). 

L’album successivo, ’Willie and the Poor Boys’, una sorta di gruppo fittizio con gli strumenti poveri campagnoli, il washboard e un basso primitivo verticale a una corda, arriva pochi mesi dopo. Forse il più musicale e ricco di hit dei tre, ha quel feroce, tiratissimo r’n’r che è ’Fortunate Son’, un atto d’accusa verso i figli di quelli potenti, i raccomandati che evitano il Vietnam a scapito dei ragazzi più poveri. Forse il miglior brano mai scritto sul Vietnam, senza menzionarlo mai, evidente esempio di come i Creedence siano molto più attenti socialmente e politicamente di quello che gli viene riconosciuto. 

E con questo siamo al terzo album nel 1969, anno d’oro per i CCR, che in agosto danno vita a un altro paradosso storico: sono gli headliner a Woodstock, l’ingaggio più alto pagato dagli organizzatori, e sono praticamente assenti da film, disco, comunicazione. L’assenza in verità la decidono loro, per via di una prestazione mediocre. Con qualche attenuante, per esempio quella di essere saliti in ritardo di tre ore, in piena notte, e dopo i Grateful Dead che con le loro lunghe jam acide e ipnotiche hanno spedito nel sonno dei giusti (cioè, dei fatti) la maggior parte dei 500.000.  Fogerty parla di una visione dantesca di fronte a lui: «una marea di corpi strafatti, dormienti, avvinghiati nel fango mentre la pioggia continua scendere e non si fermava più». 

Solo per la riedizione della colonna sonora del 25° Anniversario i CCR verranno reinseriti, fino ad allora l’unica traccia della loro presenza sarà l’ispirazione per un brano nel nuovo album, ’Who’ll Stop The Rain’ (a cui verrà dato anche un significato di pioggia acida, da fall-out nucleare). Da poco è uscito il concerto per intero, e non è affatto male. Hit a go-go, ma mi sa che a strategia dovevano ancora studiare un po’.

Va anche ricordato, per far capire quanto le canzoni di John siano rimaste nella storia, , quando a Firenze sotto il diluvio e alla fine di tre ore e mezzo di concerto il Boss se ne stava andando a casa, e qualcuno gliela urlò: «Who’ll stop the rain?!?!», Bruce tornò e in un clima apocalittico e di totale passione, vicino al biblico, la cantò tutta completamente fradicio, lui e tutta la E Street Band. Momenti che rimangono per sempre.

Perché dopo i tre Lp nel 1969, a gennaio 1970 esce ’Cosmo’s Factory’, probabilmente il loro album migliore, no.1 diretto. È’ il nome della palestra dove fanno le prove, e la copertina (decisamente la più brutta del loro catalogo) li ritrae in un momento di relax, cyclette inclusa. 

È un album estremamente vario, ci sono tutti gli stili a cui si sono ispirati, ognuno virato in una forma moderna. Groove martellanti e fluidi, anche cattivi, nei due brani ’lunghi’: l’iniziale ’Ramble Tamble’, un testo paranoico che parla di una città allo sfascio e attori alla casa Bianca, le cui schitarrate elettriche, con saliscendi di ritmo, ricordano quelle di Neil Young formato-Crazy Horse. E gli undici minuti della loro versione di ’I Heard It Through The Grapevine’, il superclassico di Marvin Gaye, che qui diventa un pentolone bollente di groove e improvvisazioni elettriche.

Ci sono le abituali cover, un fisso, questa volta omaggi all’età dell’oro, quando il rockabilly stava diventando rock’n’roll, l’era della Sun Records di Memphis, che per Fogerty è la punta dorata della piramide di tutti i generi e subgeneri della canzone popolare americana. Ce n’è una di Do Diddley, ’Before You Accuse Me’, un classico del primo Elvis, ’My baby Left Me’, e anche una rivisitazione molto vicina all’originale di un brano di Roy Orbison, ’Ooby Dooby’. 

Il resto è puro CCR: i due rockabilly super-pompati, ’Travelin’ Band’ (l’ode a una band, la loro, che è incessantemente in tour), e ’Up Around The Bend’. C’è il brano per il ritorno a casa, dove finalmente stare sul porch e twangare via la chitarra in uno shuffle stile country che parla di ’guardare fuori della porta sul dietro’, ’Looking Out My Backdoor’.

La magnifica ’Run Through The Jungle’, una fuga attraverso una giungla minacciosa, oscura, con l’esercito del diavolo alle calcagna e voci che parlano dal cielo in mezzo a tuoni e lampi, un lungo assolo di armonica di Fogerty che è puro ’Americana’ con trent’anni d’anticipo. Chiude un brano che sembra uscito dagli studi di Muscle Shoals, piano elettrico e un sax  grasso e melodioso che accompagnano un esempio di deep soul, il soul profondo del Sud: ’Long As I Can See The Light’ Fogerty non la canta con la finesse del soul singer, ma con strappi e urli degni di uno shouter come James Brown. Un brano contenuto e sontuoso insieme. 

Insieme al sound e alla incredibile prolificità di John come autore, l’ultima chiave del successo dei Creedence è la voce di Fogerty: credibile sempre, piena di spessore, che sa anche essere leggera e quasi di cazzeggio familiare il brano prima, poi portarti con sé in territori pericolosi per lo spirito, e infine condurti in una Chiesa del Sud la domenica mattina. E funziona sempre, che accarezzi o prenda di petto. Come è fantastica per i suoi rockabilly frenetici o le ballate, anch’esse spesso con venature oscure. 

I CCR sono al loro culmine, gli I-Ching direbbero che possono solo scendere, e così sarà. Da qui in poi, i Creedence lentamente si dissolveranno, per la stanchezza di anni passati in tour, per una gestione economica con la Casa discografica rovinosa (sembra fosse la più bassa royalty di tutte le band sulla scena), per i dissidi interni che portano prima all’addio del fratello Tom, e poi di un confronto con Cook e Clifford, che da sempre reclamavano più considerazione artistica. «Bene», gli dice Fogerty, esasperato, «finora ho comandato io, vi ho portato dove siete, ma voi vi lamentate. D’ora in poi ognuno contribuirà la sua parte, in assoluta libertà».

 I due -probabilmente rinsaviti di colpo- rigettano la proposta, ma John va avanti con questa intenzione tendente al suicidio. E così sarà, un ultimo sbilenco “Pendulum”, e poi il dirupo (artistico), e una carriera solista anch’essa piena di stop-and-go. Ma finché quei singoli memorabili continueranno a uscire dalle casse di una macchina, di una radio, di uno stereo a tarda notte (tipo il mio, ora), ci sarà speranza e la convinzione che il r’n’r, con tutto quello che contiene, non morirà mai.    

Carlo Massarini | Fonte  linkiesta

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