Bob Dylan ‎– The 1966 Live Recordings (2016)

di Riccardo Bertoncelli 

Questo goffo cubotto strapieno di musica (quasi trenta ore complessive) completa la ricognizione dei due anni chiave nella vita artistica di Bob Dylan, 1965-66, iniziata lo scorso anno con il monumentale cofanetto di «The Cutting Edge». Là c’era l’integrale delle registrazioni in studio, diciotto cd, con il bonus digitale di numerosi show registrati nel 1965; qui i nastri di parte delle esibizioni dal vivo del 1966, da White Plains, 5 febbraio, a Londra, 27 maggio (tutto quello che in qualche forma esiste – circa il 60 per cento). Si sa che l’anno live dovrebbe essere molto più ricco ma due mesi dopo la fine del tour europeo Dylan ebbe il fatale incidente in moto che lo fermò e gli diede tregua. Saltò il resto della massacrante tournée, mai più recuperata, e si chiuse un’epoca.

Va da sé che questa Treccani dylaniana è materia per studiosi e super appassionati. Buona parte dei nastri è di buona qualità, direttamente dal soundboard e in qualche caso stereo, ma alcune registrazioni vengono da traballanti audience tapes, con buchi e sfumi improvvisi; e se lo storico apprezzerà il tramutare delle canzoni, dalle incertezze dell’inverno alla gloria primaverile alla stanchezza degli ultimi set, l’ascoltatore tiepido troverà frustrante una scaletta che sera dopo sera si ripete quasi uguale, alternando brani del passato (ma neanche una «canzone di protesta»), anticipazioni del «Blonde On Blonde» di prossima uscita e anche un pezzo, Tell Me Momma, che dopo quel tour non verrà mai più eseguito. Si era comportato diversamente Dylan nel primo tour elettrico, quando di rado aveva seguito due volte di fila la medesima scaletta.

Alla fine è un viaggio forte ed emozionante, perché non di semplici concerti si tratta ma di una ricorrente ordalia, una via crucis in trentasei quadri. Dylan ha abiurato da pochi mesi la fede folk, ha imbracciato scandalosi strumenti elettrici e per molti che l’hanno amato ai tempi di «Freewheelin’» è un doppiogiochista, un traditore, un «Giuda!», come gli grida uno spettatore la sera di Manchester. Lui, che inizia ogni volta con un calibrato set acustico, deve mettere in conto oltre all’affiatamento con la band anche i grugniti del pubblico e le insolenze nella seconda parte, quella in cui propone a 220 volt Like A Rolling Stone, Ballad Of A Thin Man e altre meraviglie del genere. «Dove hai la coscienza?», gli strillano, e lo disconoscono: «Vogliamo Dylan!». Lui si difende dietro cortine di marijuana (ascoltare il fumatissimo concerto di Parigi, per esempio) ma ogni tanto saetta la lingua come una lama. «Dylan non sta bene ed è rimasto nei camerini,» sibila la sera di Glasgow. «Suono io al suo posto.»

Un documentario di musique verité, ecco di che si tratta, un pezzo di storia che completa nei dettagli quanto già emerso nel documentario di Scorsese, No Direction Home. Se il dio del rock fosse stato giusto (e Albert Grossman, il manager, non così avido) quella primavera Dylan e i suoi avrebbero riposato e rifinito la pura gioielleria appena intagliata, centellinando poi con comodo le esibizioni nei mesi a venire. Invece una giostra pazza di date & conferenze stampa & stress & polemiche, fino allo sfinimento. Peccato, perché nei momenti migliori, in Australia soprattutto, a Manchester a Dublino, Dylan vola davvero alto nella parte elettrica, in compagnia di musicisti che sono complici di un progetto favolosamente nuovo e che non riavrà più con la stessa dedizione, innocenza, energia.

Riccardo Bertoncelli | musica jazz

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