Addio alla giovinezza | Per i romantici senza speranza, “Late For The Sky” di Jackson Browne è l’album del secolo

Per tutti i romantici senza speranza in cerca di un riparo, di una ragione di esistere e di una parola di conforto e chiarezza, “Late For The Sky” di Jackson Browne è l’album del secolo.

Un album che racconta l’addio alla giovinezza, e lo fa mischiando insieme quei sentimenti irrazionali e puri che la caratterizzano: la costante sfuggente ricerca di una propria identità, la voglia di andare e la mancanza di direzione, i primi ideali e la difficoltà di trovare un mondo perfetto, là fuori. Il sogno di qualcosa che ti appaghi e quel perenne desiderio di fuga che ti fa sempre correr via, generalmente quando dovresti rimanere. E, sopra tutto, l’Amore: le certezze dell’amore eterno e l’impossibilità di amare davvero, prigioniero senza speranza (appunto) dell’illusione amorosa.

Ci siamo passati tutti: la ricerca del grande amore, di quello che darà un senso alla tua vita (non necessariamente alla sua), senza sapere ancora che l’amore è qualcosa di molto più complesso dell’innamorarsi. Richiede tempo, esattamente quello che un ventenne non vuole aspettare. E infine, sublimazione dello sturm und drang (o anche l’inizio di tutti i guai), la ricerca della donna perfetta, qualunque sia, ognuno ha le sue ma il concetto è lo stesso, e la trappola pure: è difficile incontrarla fuori se tu sei così dentro te stesso, in questa ricerca esteriore, che, come canta in “The Late Show”: «È difficile vedere le cose chiaramente, lo so/Mentre stai aspettando che la realtà si mostri/Senza sognare dell’amore perfetto, e tenerlo così in alto/ Che se inciampassi in qualcuna reale, non lo sapresti mai».

Jackson Browne racconta questo addio in maniera perfetta, poesia ed empatia insieme, portandoti dentro il suo mondo, finché i confini col tuo diventano incerti, svaniscono. Quando hai trovato una persona che parla anche per te sai che sei al sicuro, la vita sarà pure un disastro ma almeno hai qualcuno che ti capisce, di cui fidarsi (non è così che funzionano i cantautori?). Le sue introspezioni diventano universali, parlano a tutti coloro che vivono pregano amano nella stessa maniera.

Ed è questo il motivo per cui in radio cominciai a chiamarlo “brother Jackson”, con un’espressione affettuosa e onnicomprensiva che fece breccia nella sensibilità degli ascoltatori. Come diceva alla ex-fidanzata in “Fountain Of Sorrow”, «era solo uno o due anni e un paio di cambiamenti avanti a te nelle lezioni alla scuola del mal di cuore». Era davvero il fratello maggiore, quello che aveva vissuto prima i tuoi stranguglioni amorosi, che ti aiutava a definire il tuo senso di solitudine. Che ti offriva in versi la speranza che, comunque, la strada ti avrebbe portato avanti, «farther on».

Nel 1974 Jackson Browne ha 26 anni ed è già da alcuni anni una delle figure centrali della scena losangelina. Generatore naturale di contatti e amico di tutti (Eagles e JD Souther in particolare), fidanzate (famose e non) a iosa, autore di canzoni acerbe ma già preziose per diversi interpreti (Linda Ronstadt, Bonnie Raitt, Joe Cocker).

Anni prima la sua cassetta-provino è finita nel cestino di David Geffen, patron della Asylum (la neo-etichetta losangelina per eccellenza), ma leggenda vuole che venga ricuperata dalla segretaria, incuriosita da quel volto da poster boy californiano, e alla fine il primo album, “Saturate Before Using” esce nel 1972, con “Doctor My Eyes” nella top 10 dei singoli. Ma la popolarità gli arriva di riflesso con una canzone sulla quale lavora da tempo e che l’amico Eagle Glenn Frey (che vive al piano di sopra e lo sente martellare all’infinito quei due accordi sul pianoforte) lo aiuta a terminare, aggiungendo quel «I’m standing on a corner in Winslow, Arizona/ Such a fine sight to see/ It’s a girl, my Lord, in a flatbed Ford, slowing down to have a look at me…».

“Take It Easy” – slogan e tormentone californiano se ce n’è uno – diventa un hit degli Eagles. La sua versione sta sul secondo album, “For Everyman”, dove i suoi temi cominciano a prendere spessore e vengono messi più a fuoco. Saranno quelli per sempre: le (sofferte) relazioni interpersonali, l’introspezione profonda, analitica, l’empatia verso gli altri esseri umani (non solo gli ‘everyman’, gli uomini comuni, ma anche i diseredati dalla vita, in qualunque parte del mondo siano) e il rispetto verso la Natura.

La cosa che sorprende, a quell’età, è la sua scrittura: a 17 anni (la prima versione la si trova sul primo album della ex-chanteuse dei Velvet Underground, Nico, che Jackson a New York accompagna a 18 anni sul palco e nella vita – breve ma intenso, suppongo) ha scritto “These Days”, con quel «Non mi mettere davanti ai miei fallimenti/Io non li ho dimenticati»: a 17 anni?! Oltre a una weariness (una “stanchezza esistenziale”) insolita, c’è una maturità nelle sue canzoni come se fosse un’anima antica, un ragazzo con la sapienza espressiva di un poeta di vecchio corso.

Ha un dono naturale per la parola, in quella scuola di cesello dove regnano Cohen e De Andrè, quella sottile e fascinosa capacità di trovare le parole giuste, di significato e di suono. Non sono parole messe lì perché suonano bene, neanche frasi simboliche o criptiche che conferiscono quell’alone di mistero. Le canzoni di Jackson sono storie, con una sceneggiatura e dei protagonisti. Ti conducono in situazioni e ti mettono lì, seduto in prima fila, la voce così vicina che sembra sia nella stanza. Nei momenti di pathos ti viene da alzarti e andare ad abbracciarlo.

In più, ha un amico che sa rivestire le sue canzoni e levigare quei diamanti grezzi fino a renderli piccoli capolavori. Si chiama David Lindley, i lunghi capelli neri e i modi arguti sembrano usciti da una comune hippy, o forse da una favola degli Hobbit. David è l’indiscusso protagonista sonoro dell’album. Suona tutti gli strumenti a corda, dal violino alla chitarra, ma dire suonare è poco. Riveste come un sarto, in una maniera così elegante e così evocativa da creare un tappeto vellutato dove la voce di Jackson – così giovane e così profonda – trova supporto, mentre le parole scorrono, crescono, si stampano nella memoria. L’empatia dei testi trova un completamento perfetto nella sua chitarra. I due, oltre a una classe immensa, condividono l’amore per il dettaglio, l’atmosfera, il mood. E qui di mood ce n’è d’avanzo.

Insieme al pianoforte e a un sottile filo di organo, la chitarra di Lindley apre l’album, e ti porta lì, di fianco al letto dove i due amanti hanno finito le energie, non si riconoscono più, sanno di essere irrimediabilmente «in ritardo per il cielo». Ti senti quasi un intruso a entrare in quell’intimità, a origliare quei pensieri ad alta voce pieni di lucido sconforto, quando le attese e le promesse non sono si sono realizzate: «Guardando a fondo nei tuoi occhi/Non c’era nessuna che avessi mai conosciuto/ Una sorpresa così vuota sentirsi così solo…Non hai mai saputo cosa amassi in te/ Io non so cosa amassi in me/ Forse l’immagine di qualcuno che speravi avrei potuto essere…».

Doloroso e magnifico insieme, ti chiedi che inizio sia, un momento di struggimento del genere. Più una fine che un inizio. Se si comincia così… cosa può seguire? Intanto, una prima facciata con quattro delle più belle canzoni di Jackson (altre due sono sul lato B): “Fountain Of Sorrow”, fluida come nella migliore tradizione westcoastiana, inizia dalla fotografia di una ex-fidanzata, e fa partire la giostra dei ricordi: «Quando vedi attraverso le illusioni dell’amore/È lì che risiede il pericolo/ E la tua perfetta amante sembra una perfetta sciocca/ Per cui te ne vai in cerca di un perfetta straniera/mentre la solitudine sembra scaturire dalla tua vita /Come una fontana da una piscina…». Ma il finale è solare, «potresti ridere di me, ne avresti il diritto, ma continui a sorridere, così luminosa». Qui le cose si son sistemate, pensi, e procedi.

“Farther On” è ancora adesso un’emozione che ti prende alla gola, la slide di Lindley carica di una malinconia da cui è impossibile evadere: «Nei miei primi anni nascondevo le lacrime, e passavo i miei giorni da solo/ alla deriva in un oceano di solitudine/ I miei sognati gettati come reti/per catturare l’amore di cui avevo sentito, nei libri, nei film, nelle canzoni/ Ora, c’è un mondo di illusioni e fantasie/ Al posto del mondo reale…». Spleen adolescenziale, certo, e insicurezza, e confusione: «Non son sicuro di quello che sto tentando di dire, potrei aver smarrito la strada…».

Ma – siamo pur sempre nella città degli angeli, no? – sono gli angeli ad accompagnarlo e proteggerlo: «Ma gli angeli sono più vecchi/Vedono il sole che tramonta velocemente/Guardano oltre la mia spalla/alla visione del paradiso nella luce del passato/ E si sdraiano dietro di me/per dormire sul ciglio della strada fino al mattino/ Dove sanno che mi troveranno/ con le mie mappe e la mia fede nel cammino/che mi spinge avanti».

Questo viaggio nella ricerca costante di un amico, un amore, un punto d’arrivo, prosegue con “The Late Show”, in cui ritorna quel disincanto che fa capolino ogni tanto… «Tutti quelli che ho incontrato mi hanno augurato del bene/O almeno così sembra, è difficile a dirsi/ Forse è più facile chiedere “how ya doin’?”/ Piuttosto che far trasparire quanto poco ti possa interessare…» e si chiude (con orchestra e suoni da “The End” beatlesiani) con l’immagine della copertina: «È come se fossi alla finestra di una casa disabitata / e io fossi in una macchina, dall’altra parte della strada/ Facciamo sia un primo modello Chevrolet, e che sia un giorno caldo e ventoso/Fai una valigia dei tuoi dispiaceri/ Lo spazzino verrà domani, lasciale sul marciapiede e noi andiamocene via». La portiera sbatte, l’orchestra accompagna la sgasata, mancano solo i titoli di coda. Ma è solo la prima facciata.

Sulla seconda, “For A Dancer” è un’altra meraviglia con lo struggente violino di Lindley, un’elegia per un amico scomparso, il suo essere ballerino e la danza come metafora della vita, semi gettati da qualcuno e raccolti da altri. È una canzone sulla morte, con le domande impossibili, e le risposte elusive: «In qualche momento fra quando arrivi e quando te ne andrai/Potrebbe esserci la ragione della tua esistenza/ Ma non lo saprai mai».

Ma la vera perla del disco è in chiusura, là dove l’introspezione e le vulnerabilità personali cedono il passo a uno sguardo più largo, dove la solitudine si scioglie in un abbraccio all’umanità intera. Qui non è più il ragazzo che interroga se stesso sulla vita, è un giovane che ha capito che c’è anche un mondo, aldilà della propria “cittadella”, e che la parola deve essere universale. Già con “For Everyman” Jackson aveva teso una mano solidale all’uomo qualunque, mutando la fuga dal fallout atomico sulle “Wooden Ships” dell’amico Crosby (+ Paul Kantner) in una cosciente attesa che tutti si mettano in salvo.

“Before The Deluge” va oltre, è una Apocalisse biblica filtrata dallo sguardo di un poeta ecologista che guarda dall’alto una scena maestosa, e la racconta. Comincia così:

«Alcuni erano sognatori, altri erano dei folli
Che facevano piani per il futuro…
Nei travagliati anni prima del diluvio».
Poi, c’erano anche coloro che avevano perso la consapevolezza:
«Alcuni conoscevano il piacere, altri il dolore
Per altri era solo il momento che contava
E sulle ali coraggiose e folli della giovinezza
Andavano volando nella pioggia
Finchè le loro piume, così fini, si sono lacerate
E alla fine hanno scambiato le loro stanche ali
Per la rassegnazione che porta la vita
E hanno scambiato il bagliore luminoso e fragile dell’amore
Per i lustrini e l’appariscenza
E in un attimo furono spazzati via dal diluvio».
Stessa sorte anche per gli uomini di buona volontà:
«Alcuni di loro erano arrabbiati
Per come la terra era abusata
Dagli uomini che avevano imparato a trasformare la sua bellezza in potere
E lottavano per proteggerla,
Solo per finire confusi dalla magnitudine della sua furia nell’ora finale…»

E infine i sopravvissuti, i pochi nella nuda alba, che «nel tentativo di comprendere una cosa così semplice e così enorme/Pensarono di essere destinati a vivere dopo il diluvio».

Dal vivo ora le due coriste nere di Jackson la rendono un gospel, dandole un valore spirituale che è intrinseco, ma non ancora evidenziato. Non una semplice canzone, ma un inno trans-generazionale che ammonisce e spaventa, mentre il suo coro esorcizza paure, conforta e alimenta la speranza: «Che la musica tenga in alto i nostri spiriti/ che gli edifici mantengano asciutti i nostri bambini/ Che la creazione riveli i suoi segreti, a poco a poco/Quando la luce smarrita dentro di noi arriva fino in cielo».

Se nel 1974, e per un bel po’ di anni, l’identificazione è stata totale, molto strano è riascoltare “Late For The Sky” adesso, con la precisa intenzione della “prima volta”. Una notte, come allora, ma 46 anni dopo. Perché questo è un disco col quale sei cresciuto, ti ci sei sicuramente aggrappato quando tutto precipitava, c’hai scritto chissà quante pagine di diario, l’hai tradotto in radio con la voce acerba e commossa che era la tua, a 22 anni. Per cui oggi lo ascolti con occhi – oltreché orecchie – diversi. Non ti riconosci più in quei personaggi, ma ti rivedi ragazzo, come da dietro l’oblò della macchina del tempo settata sui medi anni Settanta. Sorridi delle tue ingenuità, pensi alle notti in cui ululavi alla luna, e lo fai con una tenerezza infinita.

Ma ora il contesto è tutto diverso. La disillusione amorosa, il cercare la persona ideale invece di quella reale sono ormai ricordi. La vita ti ha segnato e insegnato, magari non sarai riuscito davvero a crescere come volevi, ma un po’ di strada è stata fatta. Hai più comprensione per quello che sei stato, te le perdoni tutte, anche perché chissà quale dei due viveva più a fondo il suo momento. I problemi sono gli stessi, ma almeno sai cavartela anche senza le canzoni. E la stessa cosa vale per il “fratello maggiore”: la sua carriera – così onorevole, prestigiosa, e impegnata – dimostra che anche per Jackson quell’età è lontana. Tanti anni dopo, lui non ha tradito le promesse: ha continuato a scrivere intense canzoni d’amore, ma in modo consapevole e giusto ha denunciato anche le ingiustizie e i drammi della politica, della società dei consumi, dei nativi americani, delle nazioni dove l’America combatte «senza neanche riuscire a pronunciarne i nomi». C’ha anche rimesso un po’ in popolarità, e questo va a suo onore.

Per cui, ascolti conoscendo a memoria ogni singola parola, con quel minimo di distacco che ti dà la distanza, e ti godi canzoni memorabili e un cantante straordinario, la sua intonazione perfetta: il raddoppio costante della voce di Jackson, la perfetta sintonia con le armonie vocali di Doug Haywood, danno alla parte vocale una intensità, un calore, una presenza (vedi “Deluge”) veramente potente, e chiudono il cerchio.

È davvero un album bellissimo, intenso, accorato. E la sua definitiva “iconizzazione” viene da quella magnifica copertina, la foto del “primo modello Chevrolet” di fronte a una villetta del quartiere di Pasadena. Lo scatto di Bob Seidemann è la rivisitazione all’americana di un dipinto (in realtà tre leggermente diversi) del surrealista belga Renèe Magritte, “L’Empire Des Lumieres”.

Più che una foto di copertina, una icona della musica degli anni Settanta, né più e né meno del disco stesso, un capolavoro al pari di “Blue” di Joni Mitchell. Due dischi che hanno definito un genere, e una sensibilità: raccontarsi con disarmante sincerità per sperare di scoprire di non essere soli.

Carlo Massarini | Fonte linkiesta

Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più