Van Morrison: da Belfast allo Spazio Astrale

I primi strilli beat blues con i Them e la magica rivelazione di «Astral Weeks»

a cura di Riccardo Bertoncelli 

Alla veneranda età di settant’anni, Van Morrison mette mano al suo storico catalogo e preferisce riordinare le vecchie carte anziché tentare azzardose avventure di musica nuova. Ha appena traslocato di casa discografica, con la Sony, portandosi dietro non solo i leggendari nastri Polydor e Mercury ma anche quelli giovanili con i Them, che la Legacy ha raccolto in una doppia antologia definitiva: «The Complete Them, 1964-1967». D’altro canto la Rhino restaura per la prima volta «Astral Weeks», il capolavoro giovanile, e «His Band And His Street Choir», un lp del 1970 che invece l’autore non ha mai troppo amato. Questi più quello fanno un ritratto splendido del Morrison da cucciolo, innamorato di jazz e blues con tanta voglia e personalità da inventarsi in breve uno stile originale, via da ogni emulazione.Le note all’antologia Them le ha scritte Morrison di persona, ed è una piccola sorpresa. Non aveva mai parlato così volentieri di quei giorni e soprattutto non aveva mai spiegato chiaramente che quel gruppo in fondo gruppo non era, soltanto lui e il produttore di turno che sceglievano, decidevano, e intorno musicisti in rotazione. Passò anche Jimmy Page da quelle parti, quando ancora non guidava dirigibili e si guadagnava il pane da turnista: la ritmica di Here Comes The Night è sua, così come la chitarra di Baby Please Don’t Go, accordata fino a farla sembrare un basso. Il fatto è che i produttori volevano musicisti affidabili, non volenterosi ragazzotti, e non a torto pensavano che solo dei professionisti sarebbero stati in grado di sostenere la voce di quell’irlandese testa rossa che già a vent’anni spaccava il mondo.

La natura gli aveva dato quel dono e lui ci aveva messo del suo ad affinare il gusto, abbeverandosi alla grande fonte del r&b americano e provando poi con parole sue, con note sue, a elaborare la materia. I nomi dei maestri sono noti, e a scanso di equivoci Morrison li elenca nel suo racconto: Jimmy Reed, Bo Diddley, Muddy Waters, Howlin’ Wolf, il Joe Williams cui ruba con amore Baby Please Don’t Go, Slim Harpo, Ray Charles. Non ha paura di essere derivativo, perché sa che non è nelle traduzioni che si gioca la partita. Il match che al giovane Van importa è quello delle composizioni originali, i rock beat blues che gli escono a fiotti per tanto amore compresso negli anni, per ore passate al giradischi nella casa di Hynford Street, per interminabili ascolti di Radio Luxembourg sino a notte fonda. La strada la trova subito: quando i Them pubblicano il loro secondo singolo, la facciata B (avete letto bene: facciata B) è la sua Gloria, uno dei pezzi più epocali di tutto il beat blues, un’icona della storia rock. Sapete chi produce quel pezzo? Dick Rowe, il discografico della Decca passato alla storia per avere rifiutato i Beatles ma anche per avere ingaggiato i Rolling Stones. Prima di spedirlo all’inferno tra insulti e lazzi, è giusto ricordare anche i suoi gol. I Them iniziano a Belfast, il luogo natale, trovano asilo presso la sala del Maritime Hotel e in breve diventano una leggenda cittadina, suonando tutti i venerdì sera per un pubblico composto per lo più da marinai di ogni parte del mondo. Presto la fama del complesso raggiunge Londra e la Decca li ingaggia, minando però la coesione della band per i motivi che abbiamo detto; Morrison è va benissimo, voce e scrittura, ma tutto il resto non viene ritenuto all’altezza e i dischi sono un mosaico di esecuzioni diverse. Nelle note Morrison ricorda che i Them come gruppo lavorarono bene solo all’epoca del secondo LP, «Them Again», quando per qualche mese la situazione si stabilizzò; e l’apice fu un tour americano a fine 1966, quando varcarono l’oceano e appiccarono il fuoco al Whiskey A Go-Go di Los Angeles, con gli imberbi Doors a suonare di spalla. Troppo tardi però. A quel punto Van ha perso la pazienza, vuole a tutti i costi un album a suo nome e ha idee di canzone che stanno strette ai compagni, idee di un folk jazz soul che presto realizzerà con l’aiuto di un compositore e produttore innamorato di lui, Bert Berns. E’ proprio Berns che lo aiuta a sciogliere il legame con i Them e lo ingaggia per la sua etichetta Bang! Morrison lo ripaga con un album promettente come «Blowin’ Your Mind» ma il destino è in agguato e si prende Berns alla fine del 1967, proprio quando il fiore del giovane irlandese sta sbocciando.

Belfast è lontana, Londra è il passato, la terra promessa ora è l’America. Ma non è facile, solo Van ci crede. Non ha più voglia di suonare beat incazzoso, già con Berns ha provato poetiche canzoni nuove anche se alla fine il produttore ha fatto vincere ancora il Morrison defiant, angry, outrageous. La strada però è quella dei desideri e lì Van si incammina, contro tutto e contro tutti. Prepara le nuove canzoni con calma, mesi e mesi tra 1967 e ’68, e le rifinisce in scena con un trio non irresistibile che però rende l’idea: la sua voce, il flauto di John Payne, il contrabbasso di Tom Kilbania. Sono spettacoli decisamente fuori schema, e molti musicisti accorrono a farsi incantare, Hendrix per primo; ma il grande pubblico resta lontano e le case discografiche fanno finta di niente. Alla fine si convince la Warner, seppure per via indiretta. Commissiona un disco ai manager dell’artista, Lewis Marenstein e Robert Schwaid, e lo acquista da loro, giusto per non avere vincoli. Se guardate le note di «Astral Weeks» troverete come produttore appunto Marenstein, anche se il responsabile unico e vero è Morrison, liberato finalmente dal padre padrone Berns e con budget abbastanza ampio per lavorare con musicisti esperti: e che musicisti! Degli abituali compagni viene reclutato il solo Payne, flauto e sax soprano: con lui il batterista Connie Kay (Modern Jazz Quartet), il contrabbassista Richard Davis (Eric Dolphy), Warren Smith (Gil Evans) al vibrafono e un genietto della chitarra classica, Jay Berliner (Charles Mingus).

Ha le idee chiare, Van Morrison, e realizza il disco di getto, due sedute di quattro ore ai Century Sound Studios di New York, 25 settembre e 15 ottobre 1968. Due altre sessions di misurate sovraincisioni orchestrali, arrangiate e dirette da Larry Fallon, l’album è pronto e tempo un mese è già nei negozi. Che tempi beati, senza lungaggini e sofisticherie. Morrison prende subito l’abbrivio e tramortisce l’ascoltatore con i sette minuti della title track, volando su scalinate di parole dylaniane che portano verso un magico altrove, «nella scia tra i viadotti dei tuoi sogni». Poi passa allo struggimento di Beside You, una sua versione di La cura tanti anni prima di Battiato, e ancora Sweet Thing ma soprattutto Cyprus Avenue, e Madame George, prime tappe di una ricerca del tempo perduto (a Belfast, naturalmente, nel cuore profondo dei Cinquanta) che ancora oggi non è terminata.

Il Morrison che abbiamo imparato a conoscere, una delle grandi icone stilistiche della canzone del Novecento, nasce da questi densi minuti. È un bardo medioevale e un soulman del suo tempo, tutto insieme e tutto intensamente, che con dolce prepotenza si fa spazio usando la voce come in trance: recita, improvvisa, ripete, deliquia, sul fine tappeto che i musicisti gli stendono sotto, in una terra incognita che non si sa come definire. «Modern Jazz Folk Quartet», aveva scherzato Tim Hardin non molto tempo prima; ecco, qualcosa del genere, e per un’idea delle coordinate valgono anche il Tim Buckley di «Happy/Sad», il Donovan di «Mellow Yellow», Nick Drake e «Five Leaves Left». Ma è bene parlare sottovoce, scrivere con inchiostro simpatico. Fin dagli inizi il rude Van fa il vuoto intorno: non vuole modelli, non cerca esempi, è solo con la musica che gli batte in testa.

Astral Weeks non passò per radio e non andò in classifica, e alla fine degli anni Sessanta aveva totalizzato – sì e no – ventimila copie di vendita. Ma il tempo è galantuomo e quelle canzoni hanno raggiunto il presente, parlano forte e stringono ancora il cuore. Per l’attesa edizione 2015 la Rhino ha aggiunto quattro alternate takes, deludendo appassionati e storici che reclamano la presenza di molto, molto di più negli archivi. Chissà, sull’argomento Morrison non parla volentieri. Quegli album rimasti a Burbank sono da anni un cruccio, anche perché tra i suoi più belli: «Astral Weeks», «Moondance» (già riedito anni fa in una splendida edizione deluxe), «His Band And His Street Choir» e «Tupelo Honey», per il quale al momento non è previsto alcun restauro.

Lui controlla tutto il catalogo successivo e nei prossimi mesi comincerà a riproporlo in nuove versioni deluxe, a cominciare da «St. Dominic’s Preview» e «Hard Nose The Highway».

Riccardo Bertoncelli | musicajazz

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