Il pop colorato dei B-52s | 39 minuti di festa, tra dialoghi surreali, sound new wave e tonalità altissima della voce

Party time! Il più divertente, ballabile, sorprendente album degli anni 70, arrivato giusto in tempo per dare il bacio d’addio alla decade. È l’album di debutto di un quintetto che viene da Athens, Georgia (stessa città dei REM, con i quali si ritroveranno spesso, anche in studio), luogo piuttosto fuori dalle rotte e singolare come posto per artisti trendy, fuori categoria (se non fosse che è un grande centro universitario). Nascono in un ristorante cinese intorno a un gigantesco drink (chiamato Flamingo Volcano, suona piuttosto esplosivo, un caraffone con un mix di liquori assortiti), e da quel momento non ce n’è più: nasce un curioso e irresistibile mix di estetica anni 50/60 e di sound che sembra new wave, ma è di sicuro la più bizzarra new wave uscita dalle due sponde dell’Atlantico. 

Il nome riporta direttamente agli anni in cui le girl bands (Shangri-Las, ma anche le Supremes e tutta la Tamla Motown) e ragazze in generale avevano quelle pettinature esagerate, cotonatissime, anzi di più: come il muso dei famosi bombardieri erano dei coni a punta, tanto che venivano chiamate anche beehive, l’alveare delle api, per capirci. E tutta la cifra estetica richiama il periodo, una sorta di frullato di pettinature pre-Beatles e pantaloni a sigaretta, camice sbuffate e occhialoni da sole, insomma il risultato di un pomeriggio di shopping in un negozietto vintage. 

I testi sono un misto di nonsense, citazioni strambe, e surrealismi vari come quello della “Rock Lobster”,’ l’Aragosta Rock, ma anche “da scoglio”. C’è tutta quella cultura giovanile fatta di B-Movies e di fantascienza low cost, spiagge assolate con surfer e ragazze in bikini. Unica cosa, se non sei americano e non capisci tutte le citazioni e i wordplay, un po’ di festa te la perdi. Diciamo che sei entrato e puoi ballare, ma parlano tutti un’altra lingua. Quando, su “Lava”, Fred con tono finto drammatico fa «I’m gonna jump in a crater» e lei gli risponde con nonchalance «see ya later», temo che in italiano un po’ si perda. O in “Dance This Mess Around”, la listona di nomi di balli di pura fantasia/gioco di parole: Shu-ga-loo, Shy Tuna, Camel Walk, Hip-o-crit, Aqua-velva, etc. Io l’ho vissuta in loco, era il mio anno a NYC per Popster, e quindi l’ironia e i surrealismi erano comprensibili, e divertenti.

Tutto questo potrebbe essere carino ma a breve scadenza, se non fosse per la musica sotto: perché è chiaro che i cinque pescano a piene mani nel vintage, dalla surf music al pop psichedelico, ma siamo pur sempre al centro dell’esplosione new wave, e il mix organo Farfisa e chitarra ritmica new wave è elettrizzante, i movimenti in scena a imitare i balli d’epoca. Alla fine fanno canzoni pop, ma non canzoni pop “normali”: ci sono le melodie e i ritornelli, certo, ma tutto un po’ strambo, come essere cascati dentro il bar di Balle Spaziali. 

E come le cantano, queste canzoni pop-non-pop? Due voci (Cindy Wilson e Kate Pierson) di tonalità altissima, che a volte tengono acuti scioccanti e poi scendono giù ammiccanti, miste con urletti e coretti, vocine artefatte e gridolini, un fantastico gioco a tre voci a contrasto con il tono deadpan e bizzarro, look da bibliotecario di provincia di Fred Schneider, unico strumento il campanaccio. 

I rimbalzi fra i tre, in chiamata-e-risposta, sono veri dialoghi da commedia surreale, sorprendenti e imprevedibili, la ritmica sempre pronta a spostare la direzione e il tempo. Suonano in tre, senza basso, e non hanno chiaramente la potenza di una rock band, ma non serve: lo scopo qui è tenere il beat e giocare di chitarra ritmica e tastiera e voci, musica eccentrica e perfetta per una band stilosissima con una punta di kitch (ma quello di talento). E se suona un po’ garage band aggiornata, beh, in fondo buona parte della new wave si rifaceva al garage rock psichedelico dei medi anni 60. 

“Rock Lobster” la lanciano da una minuscola etichetta, diventa un underground cult, quando vanno a Londra, senza neanche un contratto, li aspettano un sold out e la sala piena di celebrità.

Firmano per Chris Blackwell, mastermind della Island, e nel 1979 sono davvero la band più originale in quel circo pazzo della new wave che già contiene di tutto, dagli eccessi punk e post-punk ai fighettini con cravattina nera, e oltre. 

L’album sono 39 minuti di pura festa, tutto nella stessa vena, come puntate di una serie tv. A partire dal giro di basso di “Peter Gunn” (crediti di coautore al leggendario Henry Mancini) con quei bip che sembrano provenire dallo spazio, quel riff di Farfisa che sa di serie tv sci-fi, decolla il viaggio facciata A, ed è solo divertimento. I B 52 sono pop, colorati, la musica è un funk bianco angolare superballabile – soprattutto per come si ballava fra i 70 e gli 80, quel misto di pogo, di dub e di movenze a scatti. 

Un disco che è impossibile ascoltare senza scuotere e far rimbalzare la testa. Me lo sono risentito, timoroso che mi sembrasse la solita cosa di moda di quell’anno. Nonnò, mi sembrano irresistibili come allora. Un pop così originale che non ha sfidato la legge del tempo (spesso spietata con le band del periodo) ma si è costruito una capsula, una sorta di bolla di sapone, o forse un mini disco volante come il Plymouth Satellite di ‘Planet Claire’, che danza ruotando come uno spinner nell’aria. Curioso e giocoso come lo era allora. 

Capitano Schneider, Signore, il test del tempo è stato superato magnificamente. 

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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