“Mad Dogs”

L’album pazzo di Joe Cocker che mette fine all’era degli hippy

Questo album è stato forse il picco di tutta la carriera di Joe Cocker, ma contiene (i semi di) tutto il meglio e tutto il peggio che uno possa immaginarsi. Questo doppio, ai tempi un oggetto imperdibile che ogni buon ascoltatore di musica aveva in discoteca, prima di tutto è veramente un disco epocale, che fotografa come pochi un momento storico già di fatto consegnato ai posteri. È infatti la cronaca (esiste anche quella cinematografica) di un tour totalmente folle, caciarone e senza freni, irripetibile.

L’anno è il 1970, e – ricordiamolo – Joe è reduce dalla trionfale presenza sul palco di Woodstock l’estate precedente. La sua maglietta psichedelica, la panzetta, i capelli lunghi tutti intrecciati dal sudore, e quel dimenarsi come un burattino spastico sono diventate una delle icone del Festival, che partito in sordina ha avuto una rilevanza planetaria. La sontuosa versione psychedelic-blues di ‘With A Little Help’ lo ha reso a tutti gli effetti una delle star mondiali più ricercate dai fan e dagli organizzatori di concerti.

Ma Joe non l’ha presa benissimo: nei mesi successivi, oltre a un po’ di date, si è praticamente ritirato, senza saper bene come gestire l’improvviso successo, che tradotto in soldoni lo ha fatto passare da 500 a 6500 dollari di cachet a sera. Per cui si trasferisce per una vacanza in California, dove però viene informato dal suo manager, Danny Cordell, che deve ancora rispettare sette settimane di date, pena la denuncia del sindacato musicisti (in America una potenza) che probabilmente non gli darebbero più il permesso per suonare negli Stati Uniti. Tocca farlo. Cordell si mette in contatto con Leon Russell, che Joe ha conosciuto l’anno prima e di cui ha inciso la canzone dedicata alla fidanzata Rita Coolidge, ‘Delta Lady’.

È Leon il vero mastermind di questo tour. Incoronato Direttore Musicale, porta Joe ancora più vicino alle sue radici americane, costruendogli intorno una mega band di dieci musicisti, inclusi i fiati dell’appena sciolta band di Delaney and Bonnie. Il suono quindi è quello di una big band, lontana dalla Grease Band del suo passato, quella con cui ha inciso i primi due dischi. Quei due album, eccellenti già di loro, avevano un suono molto più British, da vero blue eyed soul, come chiamano il blues reinterpretato da quella schiera di voci d’oro del periodo, anche questo irripetibile, del British blues (Eric Burdon, Steve Winwood, Rod Stewart eccetera).

Le interpretazioni dei Beatles, di Leonard Cohen, dei Traffic fatte da Joe in quei due Lp sono calde, spesso intimiste, ballate o pop song trattate con una visceralità e una passione che ha tanto a che vedere con i comandamenti del blues originale.

Questa di Leon Russell, invece, è molto più ryhtm’n’blues, generalmente eccitato ed eccitante, più dinamico, più esplicito. Cori e ritmi pompati, arrangiamenti un filo dilatati, qualche divagazione pianistica dell’uomo col cilindro, e anche una guest spot per Rita Coolidge e Claudia Linnear. Ma c’è molto di più a rendere quest’album un unicum. Insieme ai dieci musicisti, si imbarcano per il tour anche undici cantanti, cinque cine-operatori, tre responsabili del suono, segretarie e personale vario (sono già 41), e poi una pletora di mogli, figli, groupies e chi non c’è si sbrighi ad arrivare.

È una carovana, una sorta di comune hippy on tour, con tutto il suo bagaglio di bizzarrie, diversità, droghe in abbondanza e tutto quanto fa r’n’r nel 1970. Quando il bus esce dal parcheggio della A&M a Hollywood in mezzo a una folla venuta a salutarli, dirà un dirigente, «sembrava il saluto ai ragazzi che partono per il campo estivo».

Da marzo a maggio, da Detroit a NYC, dove viene inciso l’album, è una città dopo l’altra, in un crescendo di stampa e attenzione. Probabilmente, i giornalisti scrivono, non c’è mai stato un R’n’R Circus di queste dimensioni. Non è difficile immaginarlo. Non a caso, il tutto si chiama Mad Dogs and Englishmen, rende bene l’idea di una troupe folle e multirazziale.

Per quanto riguarda la musica, nella versione definitiva uscita molto dopo possiamo vedere dispiegarsi un canzoniere prestigioso, che nulla tralascia. C’è di tutto: Beatles a volontà (‘With A Little Help’, of course, ma anche ‘She came In Through The Bathroom Window’, ‘Let It Be’, ‘Give Peace a Chance’, ‘Something’). Musica d’autore statunitense: ‘Bird On A Wire’ di Cohen, ‘The Weight’ della Band, ‘Darling Be Home Soon’ di John Sebastian, ‘Girl From The North Country’ di Dylan. La versione strepitosa della torch singer inglese Julie London, ‘Cry Me A River’, e la sfacciata ‘Honky Tonk Women’ degli Stones, ‘Superstar’ dei Carpenters e un fantastico ‘blue-medley’ alla Ray Charles/Otis Redding, ‘I’ll Drown In My Own Tears/When Something Is Wrong With My Baby/I’ve Been Loving You Too Long’. Insomma, Leon gli ha preparato non una setlist, ma un banchetto sontuoso da cui attingere a piene mani, e Joe fa la sua parte, con quella voce calda e strozzata che passa in rassegna classici della sua generazione e delle precdenti.

Finale trionfale per l’ex benzinaio del Nord Est inglese? Mica tanto, Joe finisce il tour senza un dollaro (scoprì che le spese extra erano a suo carico, e non erano, come dire, qualche scontrino qui e là), sfinito e malato, disilluso dal record business. Insomma, a pezzi, tanto da ritirarsi dalle scene per due anni e pagarne i segni per molto più tempo, inclusa una dipendenza dall’eroina che quasi lo ammazzerà. Il suo stress, però, è anche la nostra gioia. Dov’altro trovare una testimonianza della fine dell’era degli hippy, delle comuni e della musica fatta tutti insieme migliore di questo?  Let’s go get stoned…

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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