Sorpresi dalla gloria
“Fire and Water” è il successo effimero dei Free reso immortale da una canzone senza tempo
Londra, 1968, Nag’s Head Pub, Battersea. Una scena che in quei tempi è una costante: un gruppo di ragazzi che si incontra per suonare. Siamo in pieno blues boom, la maggior parte dei ragazzi inglesi si è gettata sulla grande tradizione oltreoceano, e decine di gruppi sono spuntati come funghi. I più famosi li conosciamo (Cream, John Mayall, Yardbirds, Spencer Davis Group, Fleetwood Mac, Chicken Shack, Ten Years After, etc etc), pensate quanti ce n’erano in giro di cui non sapremo mai il nome.
Tre sono amici. Due diciottenni, Simon Kirke, batterista e Paul Rodgers, cantante, e un 17enne chitarrista, Paul Kossoff, figlio di un attore abbastanza conosciuto in Inghilterra. Aspettano un quarto. Gliel’ha consigliato “l’altro” padre del blues inglese (il primo essendo Mayall), ovvero Alexis Korner: un ragazzino di soli 15 anni (15!) che suona il basso.
Credenziali: ha già suonato live con la Mayall’s Blues School, i Bluesbreakers, garantisce John. Andy Fraser scende dal taxi nero, apre il bagagliaio e tira giù i due amplificatori, ed entra. Dopo sei ore di jam, arriva Alexis a benedire l’incontro. E gli regala anche il nome. A loro piace un nome, Free At Last. Alexis lo scorcia in Free.
Estate 1970. Da tutte le radio, fonovaligie e stereo esce quel riff di chitarra, e quella voce da bluesman adulto: «There she stood in the street, smilin’ from her head to her feet…».
«All Right Now» gonfia gli altoparlanti, con quel giro di basso pompato che è il marchio di fabbrica del neo-maggiorenne, batteria secca e potente che scandisce il tutto, un gran bel solo di Kossoff a metà (allora nei 45 c’era anche un assolo di chitarra, pensate…).
Prima lezione, quindi: come si fa a passare da gruppo-in-un-pub a star dell’estate, anche dall’altra parte dell’oceano?
Quando i Free si incontrano sono ragazzini, ma hanno già esperienza alle spalle. Si è precoci, in quel periodo. Più o meno come oggi i ragazzini maneggiano la tecnologia. Allora, è una generazione terribilmente precoce che sembra nata con lo scopo di fare quello nella vita. Una missione, sembra davvero quella la motivazione che sta dietro questa voglia di dare forme nuove a un genere che nasce dall’altra parte dell’oceano. Ognuno cerca la sua strada, la sua variazione, sul grande tema.
È il momento in cui nasce il rock-blues, e ognuno ci mette del suo, ognuno lo fa a suo modo. I Free sono puristi. La gran voce di Paul Rodgers, che poi sarà vera star con Bad Company e la seicorde di Kossoff, grande chitarrista forse un po’ sottovalutato, e poi dimenticato per la sua scomparsa prematura, sono due splendide lance per bucare il sipario (lo schermo, si direbbe adesso).
La ritmica è solidissima. Vogliono tenere tutto basic, basso-chitarra-batteria, Rodgers basso e chitarra li sa suonare, «ma meglio di no». Niente psichedelìe. Scrivono le prime canzoni, rielaborano “The Hunter”, un gran pezzo di Albert King, uno dei tre Re della elettrica del Chicago-blues (gli altri due essendo B.B. e Freddy), che diventa il loro primo superclassico e anche il benchmark col quale misurarsi quando compongono.
Li accoglie alla Island l’onnipresente Chris Blackwell, la cui Island in quegli anni è IL marchio di fabbrica: puoi comprarli tutti, quelli che pubblicano, al massimo ti lascerà così così uno su dieci. I Free entrano in studio e lì sì che sono proprio pischelli, li aiuta Guy Stevens, dj e produttore con un amore per il r’n’b.
Di fronte alle loro indecisioni gli dice: «Suonate come fossero due set live». ‘Tons Of Sobs” (quale titolo più blues…?) esce nel 1968, ottimo debutto, rock-blues melodico, brani di 3- massimo-5 che sono canzoni, non jam infinite come vanno di moda. Diversi passaggi gentili, chitarra acustica, persino un flauto, blues lenti con una chitarra lirica, la voce di Rodgers sempre più flessibile, fra il tono un po’ macho e quello sofferente, implorante, che sarà il modello per metà dei cantanti degli anni ‘70.
Il basso di Fraser sinuoso, scuola r’n’b, sempre di sostegno ma anche libero di creare le sue linee, che in certi momenti lo fanno diventare uno strumento solista al pari della chitarra.
Anche il successivo “Free” sfiora i margini della classifica, ma non sfondano per davvero.
Eppure i Free hanno un sound preciso, elegante e potente, una voce riconoscibile, i brani non sono male, gli assoli eccellenti, con quel tono un po’ distorto della sua Gibson che sembra facile, ma vallo a emulare. È solo un ragazzo ma gode di grande reputazione.
Cambia tutto quando nel 1969 vengono invitati ad aprire le date del famigerato tour americano dei Blind Faith. Dopo lo show al Madison Square Garden gli viene offerto Woodstock, ma la proposta non si concretizza. Suonano invece da Ungano’s in un piccolo ma famoso club a NYC, dove una sera arrivano anche Baker e Clapton, che finalmente li incontrano, si complimentano.
Quando Clapton chiede a Kossoff qualche trucco del suo vibrato, a Paul 18nne di fronte al dio della seicorde non gli sembra vero. Autostima a mille.
Una sera, dopo un brutto concerto a Durham, si rendono conto che il loro repertorio è troppo lento, troppo uguale, buono giusto per un pubblico che ascolta quieto. Manca qualcosa, è chiaro. Kirke ricorda che quella sera scendono dal palco al suono dei loro stessi passi.
Serve qualcosa di uptempo per finire, qualcosa che tiri su. È Fraser, il talentuoso che suona una miriade di strumenti e ha un’inclinazione per i ritornelli pop, a cominciare a canticchiare mentre saltella «All right now…». In dieci minuti la scrivono lì, nel camerino. È la svolta.
Grande singolo, un po’ scorciato e compattato da Blackwell, ancora adesso si trova in qualsiasi playlist di classic rock. E portato addirittura da Wilson Pickett al no. 2 delle chart di r’n’b negli Stati Uniti. È un grande album. Non c’è un pezzo minore, che siano lenti o più veloci: apre “Fire And Water”, il loro classico mid-tempo con riff e batteria che spacca, ci sono quelle lente e malinconiche (“Oh I Wept”, “Dont’ Say You Love Me”) e quelle grandiose “Mr. Big”, un confronto a tre basic quanto potente fra basso-batteria e chitarra con assoli a volontà di basso e solista in un crescendo incendiario (sei minuti, dal vivo anche molti di più).
È il disco della consacrazione. E che dire della giornata-della-vita, quando con un elicottero planano sull’Isle of Wight Festival 1970, 600mila persone ad accoglierli in gloria? Lezione imparata.
Seconda lezione: come si può stare seduti “on top of the world”, per ri-citare Albert King, e rimanerci?
Non è facile, per i Free. Paradossalmente, il successo li spiazza, li mette in crisi, crea una frattura fra Fraser, che per istinto è portato verso il pop, e quelli più fedeli alla matrice rock-blues. Fanno anche una scelta strana, perché nell’album seguente, “Highway”, Rodgers e Fraser si spingono lontano dal blues degli inizi, nella direzione rilassata e “roots” che la Band, un culto dopo l’esposizione avuta come backing band di Dylan, ha creato su, in campagna a Big Pink.
Un album troppo rilassato per un pubblico rock, non funziona. Un buon live, “Free Live!”, scioglimento, reunion nel 1972 con un ultimo, poco convinto, “Free At Last”. Curiosamente, ricordate?, nelle intenzioni all’inizio doveva essere il nome della band, scorciato poi per lasciare solo “Liberi”. È invece il loro canto del cigno.
Kirke continuerà con Rodgers formando i Bad Company, diretta prosecuzione del format creato dai Free, successo americano gigantesco. Il ragazzino prodigio incredibilmente sparirà quasi totalmente dalla scena, malato del Sarcoma di Kaposi legato all’Aids, ricomparendo con Rodgers a Woodstock ‘94, e scriverà “Yes We Can” per la campagna di Obama (ci ha lasciato nel 2015).
Chi rappresenta la lezione-non-imparata è Kossof. Il ragazzo con la criniera fino alla vita, riff di metallo e assoli fluidi, ma anche tanto fragile, vede tutto incerto, comincia a farsi di eroina. Con la salute sempre più compromessa riuscirà ancora a produrre un album solo, “Back Street Crawler”, nome che darà al suo nuovo gruppo (due album e un live). A soli 25 anni morirà per un embolo nel volo NY-Londra. L’epitaffio sulla tomba recita “All Right Now”. Quando nasce e muore tutto intorno a una canzone.
Carlo Massarini - Fonte | linkiesta
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