Shuffle lenitivo

“Yellow Moon” dei Neville Brothers è musica che guarisce, innalza lo spirito e libera la mente

New Orleans è una città speciale. La capitale della Louisiana, fondata dai francesi nel 1718, arrivata ad essere la terza città più popolosa degli USA, è una città dalla storia travagliata ma anche straordinaria da un punto di vista artistico. Era il principale porto d’arrivo della tratta degli schiavi (ma anche il luogo con la maggior percentuali di neri ‘liberi’), il punto di partenza per il grande traffico commerciale sul Mississipi, e le dominazioni che la città ha avuto nei secoli (francese, spagnola e inglese, prima di essere conquistata dagli statunitensi nel 1815 nella celebrata Battle of New Orleans) hanno creato il più potente melting pot di tutti gli Stati Uniti.

È stata la culla del jazz, a poca distanza c’è il Delta del Mississipi, patria del blues, e altre forme di musica, come lo zydeco, il cajun, il rock’n’roll (Larry Williams e soprattutto Fats Domino sono bandiere cittadine) si mischiano alle tradizioni dei nativi Indiani, il reggae e ritmi caraibici sono quasi a portata d’ascolto: è evidente che definire il “suono di N.O.” è complicato, perché è un mix, e a seconda di come e quanto inserisci gli elementi cambia. Però se ci sono due band che lo riassumono sono i Meters, quartetto strumentale dietro una miriade di album, propri e di altri, e i Neville Brothers. Ecco, la band dei quattro fratelli è esattamente il genere di musica che amo, quel funk lento e ipnotico che ho trovato in tante band amate (dai Traffic ai Little Feat, Santana, il reggae), e del quale loro sono maestri. E sono decisamente coloro che hanno mantenuto accesa la torcia del r’n’b cittadino per – ormai – 50 anni.

Ma in realtà se prendi il percorso musicale dei Neville, capisci che non c’è solo questo, anche se è l’ingrediente principale. Ci sono echi di reggae e di cajun, ci sono ballate morbidissime (come ‘Tell It Like It Is’, il primo hit di famiglia, di Aaron, 1966), e sprazzi di r’n’r, assoli jazzistici di Charles al sax e jam percussive a sei, otto mani. I quattro fratelli (nell’ordine Art Charles Aaron e Cyril, nati fra il ’39 e il ’48), c’hanno messo un bel po’ a ‘fare gruppo’. Solo nel 1976, dopo che ognuno aveva cercato gloria per conto proprio in tante produzioni in città: l’occasione è l’incisione di un album, “The Wild Thoupitoulas”, uno dei gruppi di Indiani del Mardi Gras (esistono 38 ‘tribù’ in città), capitanati da un loro zio, George Landry, nome d’arte Big Chief Jolly.

L’occasione, a guardare indietro, è storica: intorno a questo gruppo di Indiani che sfilano il martedì grasso nel Carnevale in abiti tradizionali di festa (definirli costumi è riduttivo, sono clamorosi), si raggruppano sia i Meters che i quattro fratelli, e l’album che ne esce è leggendario. È lì che per la prima volta vengono messi su disco quelle jam vocali/percussive che sono le musiche della sfilata, canti tradizionali riarrangiati che tornano indietro nei secoli: “Brother John” (conosciuta anche come “Iko Iko”), “Meet De Boys On The Battlefront” (cover di Arbore), “Hey Pocky-A-Way”. L’album è bellissimo, vero folklore-funk, prodotto da un altro gigante di New Orleans, Allen Touissant, ed è l’inizio anche per quelli che nel tempo saranno chiamati la “first family of N.O.”.

Il primo album degno di nota è dell’81, “Fiyo On The Bayou”, rimarrà uno dei loro migliori. E subito dopo arriva un live, “Neville-ization”, che cattura l’energia e il calore di una serata al Tipitina’s, locale leggendario, che avrà anche un seguito (minore) con “Live at Tipitina’s”. Ma per arrivare al capolavoro bisogna attendere – fra contratti scaduti, non rinegoziati e altre vicissitudini – fino al 1989, quando rientrano in sala con produttore Daniel Lanois, per “Yellow Moon”. È l’album perfetto per loro: grande scrittura, arrangiamenti e groove calibrati, ben cantato, bel clima d’insieme.

È anche un album in cui la coscienza sociale gioca un ruolo importante: l’apertura, “My Blood”, è un’invocazione a Jah di intervenire, perché ”it’s my blood, down there” in Africa, ad Haiti, e alla fine anche in America, per le persone nere, gli Indiani delle riserve, i primi nativi, e finisce con Nicaragua, El Salvador, l’Irlanda del Nord. “Sister Rosa” è dedicata a quella donna di colore che nel 1955, stanca dopo il lavoro, si rifiutò di cedere il posto a una bianca solo perché i neri “dovevano farlo”: arrestata, multata, ma anche capace di accendere quella scintilla di orgoglio e ribellione che portò alla nascita del Movimento di liberazione della black nation.

Intonano anche “A Change Is Gonna Come” di Sam Cooke, fianco a fianco di “With God On Our Side”, famoso brano del Dylan “di protesta”, di cui riprendono anche un’altra storia di ingiustizia sociale e razzista, “The Ballad of Hollis Brown”. C’è un country della Nitty Gritty Dirt Band, “Will The Circle Be Unbroken”, un elogio della tradizione da tramandare ai posteri, un sogno apocalittico come “Fire And Brimstone”, e infine la title track, interpretata dal gigante buono Aaron con quella sua voce eterea e vibrata: una richiesta accorata alla Luna Gialla di dirgli se la sua “creole woman” tornerà, se è fuggita con qualcuno o se sta cercando la via di casa.

Infine, il loro unico Grammy, per performance strumentale, “Healing Chant”, il canto di guarigione. Ecco, “Yellow Moon” in particolare è il perfetto esempio del funk di cui parlavo: lento, un po’ shuffle (traduciamolo alla meglio, strascicato), poliritmico, un lento incedere da seguire dondolando morbidamente il corpo. Per me, è musica che innalza lo spirito e libera la mente, come quella di Marley, musica di guarigione, musica capace di scaldarti il cuore e darti quel sollievo che spesso non sappiamo dove altro cercare. Ma è anche vero che ognuno, come dire, ha le sue “malattie” e le sue “cure”, e quindi capisco che un disco del genere non arrivi a tutti. Sarebbe un mondo migliore, forse, se succedesse, se i dischi con un’anima e un pensiero dietro potessero esser ascoltati al posto del pop senza contenuti che ci affligge. Aiuterebbe un mondo che sta diventando sempre più superficiale, cinico, insensibile, chiuso, sovranista, che parola retrograda e orribile.

Per chi volesse approfondire sui Neville, consiglio anche il loro primo best “Treacherous, A History of the Neville Brothers”, doppio, e il doppio live del 1989 (ma pubblicato solo nel 2010), “Warfield Theatre-San Francisco”. Lì c’è il meglio di tutta la carriera fino ad allora: lunghe jam, assoli sinuosi di sax (quello su “Yellow Moon” è sontuoso), qualche divagazione r’n’r non proprio imperdibile, ma il resto è memorabile e si chiude – non a caso – con due inni, “Amazing Grace” e “One Love” di Bob. Di New Orleans torneremo presto a parlare (e ascoltare).

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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