Nina Simone: l’anima e il soul

di Paolo Giovanazzi

Quando la sua esistenza terrena si è conclusa, il 21 aprile 2003, Nina Simone viveva appartata in Costa Azzurra: era malata da tempo di cancro e affetta da un disturbo bipolare diagnosticato dagli anni Ottanta che era progressivamente peggiorato. È uscita di scena in sordina, in contrasto con una storia artistica (e personale) tumultuosa, anomala e imprevedibile.

Tanto per cominciare, Nina Simone non aveva affatto programmato di diventare Nina Simone. Eunice Waymon (è nata con questo nome il 21 febbraio 1933) era ragazzina prodigio dotata di orecchio assoluto che aveva dedicato tutta la sua adolescenza a studiare per diventare una pianista classica. Nel 1954 tentò la prova di ammissione al prestigioso Curtis Institute of Music di Philadelphia, ma fu respinta. La famiglia Waymon era sbigottita e Carroll, fratello maggiore di Eunice, aveva un'ipotesi: «il rifiuto non sarà per caso dovuto al colore della tua pelle?».

Il dubbio di Carroll, mai provato con certezza, era più che fondato: la sorella era l'unica candidata nera, la commissione era formata da insegnanti bianchi e la segregazione scolastica era ancora in vigore negli Stati Uniti. Da parte sua Eunice era convinta di aver subito una discriminazione che segnò profondamente le sue convinzioni e le sue idee sul funzionamento della società americana. Non rinunciò alle sue ambizioni e continuò a studiare privatamente, lavorando per pagarsi le lezioni. Nell'estate del 1954 un'amica, Faith Jackson, la convinse a seguirla ad Atlantic City.

Per mantenersi, Eunice si trovò un ingaggio come pianista al Midtown Bar & Grill. Più o meno una bettola, ma la paga era buona. Non poteva usare il suo vero nome: la famiglia Waymon era religiosissima, e suonare “la musica del diavolo” in un locale del genere era del tutto inconcepibile. Per evitare che i genitori potessero venirlo a sapere, adottò lo pseudonimo Nina Simone. Nina perché un amico ispanico la chiamava “niña” e Simone perché aveva visto Simone Signoret nel film Casco d'oro e ne rra rimasta colpita. Dopo la serata di debutto, il titolare le spiegò che c'erano state lamentele: se voleva tenersi il lavoro, non poteva limitarsi a suonare, doveva pure cantare. Lei si adeguò e, senza saperlo, imboccò la strada per diventare una leggenda della musica afroamericana. Combinando canzoni pop, gospel e standard jazz con la sua conoscenza della musica classica, cominciò a costruirsi un repertorio notevole e insolito.

Nel giro di qualche anno arrivò il debutto discografico. Un trionfo e una colossale fregatura: Nina a dicembre del 1956 registrò per tredici ore filate una serie di pezzi del suo repertorio, firmando poi un contratto con cui cedeva tutti i diritti in cambio di un assegno da 3.000 dollari. Fra quelle incisioni c'erano la sua versione di I Loves You Porgy di George Gershwin, destinata a diventare il suo unico successo da top 20 negli Stati Uniti, e My Baby Just Cares For Me, una canzone che lei considerava «idiota, tra le più inoffensive che abbia mai inciso» e che sarebbe diventata popolarissima negli anni Ottanta grazie a uno spot pubblicitario.

Negli anni questi pezzi hanno generato ricavi per oltre un milione di dollari e - assegno a parte - neanche un centesimo finirà nelle sue tasche. Da lì in poi, guardò con diffidenza al mondo discografico («ci sono pirati dappertutto») e qualche anno dopo si sentì apertamente boicottata dal music-business americano. Il motivo? Nel 1964 aveva scritto e inciso Mississippi Goddam, una reazione rabbiosa all'omicidio dell'attivista nero Medgar Evers e a un attentato a una chiesa in Alabama che aveva ucciso quattro ragazzine nere. La canzone venne bandita da diversi stati del sud degli Stati Uniti, diventò una sorta di inno del movimento per i diritti civili. Nina continuò a sostenere la causa,  con dichiarazioni pubbliche e con canzoni come To Be Young, Gifted And Black del 1970, abbracciò posizioni sempre più radicali e finì col lasciare gli Stati Uniti.

Da punto di vista musicale, il suo periodo migliore durò fino alla prima metà degli anni Settanta. La discografia è folta e disordinata, ma è ricca di episodi sfolgoranti e di scelte estremamente eclettiche. Oltre a scrivere pezzi originali, Nina Simone ha saputo interpretare con disinvoltura brani di Jacques Brel, Duke Ellington, Kurt Weill e Bertolt Brecht, trasformare la deragliante follia di I Put A Spell On You di Screamin' Jay Hawkins in un classico, scalare le classifiche con Don't Let Me Be Misunderstood ma anche con To Love Somebody dei Bee Gees.

All'attività artistica frenetica corrispondeva però una vita privata difficile: il secondo marito nonché manager, Andrew Stroud, pensava di riuscire a “tenerla in riga” con la violenza. Lei stessa era soggetta a scatti di ira: la figlia Lisa ha raccontato di essere stata picchiata spesso, soprattutto dopo il divorzio da Stroud.

Anche sul lavoro era considerata un'artista difficile, capace di troncare un'esibizione per irritazione nei confronti del pubblico, temuta dai promoter per il comportamento imprevedibile. Nel 1985 sarebbe arrivata a sparare a un discografico, mancandolo, per un presunto mancato pagamento. C'era però anche l'altro lato della medaglia, riassunto così dal suo ultimo manager, Raymond Gonzalez: «sul palco la sua presenza era magica. Aveva un tale carisma che quasi non era nemmeno necessario che cantasse». Se fosse stata ammessa al Curtis Institute, forse non avrebbe mai scoperto di possedere questo carisma. Ma resta il dubbio che sarebbe stata più felice suonando il suo adorato Bach, senza dover avere a che fare con i “pirati” del mondo dello spettacolo.

Fonte originale dell'articolo: Youmanist

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