Latino America

Il viaggio multiforme di Gato Barbieri tra terre e ritmi lontani fra loro

Negli anni 70, per tutti noi che ascoltavamo rock ma avevamo le orecchie aperte a tutto, Leandro “Gato” Barbieri è stata una figura affascinante e amata: un pampero, argentino di origine che aveva girato il mondo, fermandosi in Italia di frequente – sposando anche una donna italo-argentina, la adorata Michelle – e che portava dentro di sé un fuoco sacro, un ruggito dentro quel sax che poteva travolgere come ammaliare. Sedurre come strapazzare.

Era jazz? Sì, lo chiamavano jazz, ma era una musica talmente ricca, e lui un performer così caldo, che la domanda era inutile (come quasi sempre, del resto…). Il Gato era il Gato, era la sua capacità di portare il fiato a essere davvero respiro, cultura, Sud e Nord America ed Europa, eccitazione e malinconia, pensiero e azione. E soprattutto, espressività totalmente emotiva. Totalmente.

Come non amarlo? Ci sono due cose che colpiscono, quando si parla di Gato Barbieri, che ci ha lasciato nel 2016. La prima è il suo percorso, caratterizzato da almeno quattro fasi creative, giocate in una sorta di elastico fra la sua terra d’origine e il resto del mondo, con cambiamenti stilistici non da poco.

La seconda, che il disco per cui è conosciuto universalmente è quasi un’eccezione al suo percorso, almeno a quello più “radicale”: la colonna sonora di uno dei film più controversi degli ultimi 50 anni, Ultimo Tango A Parigi. Due cose che non sono in contrasto solo per la sua natura eclettica, la sua voglia, forse necessità, di cambiare percorso, di non adattarsi alle mode, di cercare strade nuove.

Tutto comincia nel 1932 in Argentina, in una famiglia dove la musica scorre, e dove un disco di Charlie Parker lo illumina e lo spinge a prendere in mano uno strumento: un clarinetto prima, un sax alto poi, che lo portano nell’Orchestra di Lalo Schifrin, pianista e conduttore, nome stimato fin a Hollywood, dove scriverà molte colonne sonore.

Gato in quella prima fase suona musica della sua terra. Poi attraversa l’oceano, fino a Roma, dove entra nel gruppo di Don Cherry, allora trombettista di punta nel mondo del free jazz. Sono comunque quelli i suoi riferimenti, i grandissimi del free: Coltrane in testa a tutti, Pharoah Sanders, Albert Ayler. Quel jazz intenso, politico, che aveva contiguità con la temperatura emotiva e sociale che si viveva in quegli anni. In Italia collabora con Giorgio Gaslini ed Ennio Morricone, che gli affida “Sapore di Sale” (come nel 1980 Venditti gli affiderà l’assolo in “Modena” e Pino Daniele lo inviterà al suo Bella “Mbriana tour”).

Dopo un paio di album di tendenza free, Gato torna con lo spirito verso la terra d’origine. È un percorso lungo, una strada da lastricare una pietra alla volta.

“The Third World”, 1969, il suo primo album per la Flying Dutchman, nel titolo rivela già l’intenzione. L’album seguente, “Fenix”, con super jazz band alle spalle (Ron Carter al basso, Lenny White alla batteria e Lonnie Liston Smith al piano) è un mix di free e di raices, roots, radici. Da molti considerato ancora il suo capolavoro. Down Beat scrive: «La forza fisica e spirituale di Gato Barbieri è travolgente. L’assoluta passione nei suoi suoni risveglia tutti i sensi».

Lentamente, Gato smussa il suo lato più duro, senza perdere nulla – quando serve – di quella ferocia che si è fatta notare da musicisti critica e pubblico, diventa più lirico, più melodico. E soprattutto, insegue una visione: quella di una musica che riesca ad abbracciare non solo il patrimonio e la tradizione del suo paese, ma di tutta l’America latina, dall’Argentina al Brasile, dalla Bolivia a Cuba.

Incide nel 1971 un album incendiario, “El Pampero: Live in Montreaux”, notte dai toni epici, e “El Gato” (che uscirà però solo quattro anni più tardi), sono altri begli esempi del suo periodo modale. Altra presenza significativa è sull’opera magna di Carla Bley, “Escalator Over The Hill” e nel prestigioso gruppo allargato della Charlie Haden Liberation Music Orchestra, due operazioni jazzistiche intellettuali che rappresentano anche un modello di collaborazioni aperte in sintonia coi tempi.

Quello che succede nel 1972 è davvero una sorpresa: chiamato da Bernardo Bertolucci a vestire di musica quell’avventura in cui si mischiano casualità, fuga, sesso, carnalità e mistero, infonde nella colonna sonora di Ultimo Tango A Parigi una sensualità necessaria, una malinconia struggente che riempie i vuoti e le distanze emotive dei personaggi. Bertolucci dirà che il titolo è direttamente ispirato dal pampero stesso, dalla musica più caratteristica della sua terra.

È un trionfo: oltre al Grammy, diventa di colpo un nome di cui si parla anche fuori della cerchia dei jazzofili. E nonostante qualche concessione a un tono più commerciale, rimane una eccellente dimostrazione di applicazione a una storia cinematografica, ce ne saranno tante negli anni. Perchè in fondo, il suo stile è molto cinematografico, perfetto per visualizzare emozioni e scorci di vita.

Il successo di Ultimo tango gli porta un contratto con la Impulse! In quegli anni ‘la’ nuova etichetta. Ma nel ’73 ha ancora da consegnare un disco alla Flying Dutchman, ed è il sontuoso “Bolivia”. Gato qui è al suo apice di comunicativa, un disco che può essere ascoltato da chiunque tanto è lirico, sensuale, avvolgente. Segue linee melodiche bellissime, trova un equilibrio fra la tradizione e innovazione, musica di tessiture colorate, pulsante di vita. Ha con sé una band stellare: ancora Lonnie Liston Smith al piano, John Abercrombie alla chitarra, Stanley Clarke al contrabbasso.

I due percussionisti che dettano i ritmi sono Airto Moreira, maestro della musica sudamericana, e Mtume, portatore sanissimo di poliritmia africana. Entrambi hanno lavorato con Miles. È musica che sgorga facile, un flusso organico, odore di terra e colori di campagna. Sarei seriamente tentato di mettere in copertina questo (comunque il mio Lp singolo preferito), se non fosse per quello che arriva subito dopo.

Con la Impulse! parte in maniera organizzata il suo progetto della vita. Fra il 1973 e il 1975 pubblica quattro album, ognuno un capitolo di ‘Latino America’. I primi tre ‘Chapters’ (il quarto è un ‘Alive in New York’ riassuntivo) hanno ognuno la propria personalità, ognuno va in una direzione, con musicisti diversi. Ma nel loro insieme, hanno lo stesso tema e progetto di fondo: trovare, rielaborare, comunicare in una forma jazz l’immenso patrimonio etnico dei latini d’America.

Metti su “Chapter One: Latino America” ed è qualcosa di straordinario ancora adesso. Gato lo incide a Buenos Aires, in mezzo ai suoi fratelli di sangue. Immediato, accessibile, eppure complesso e sofisticato, è l’incontro fra musicisti argentini e il figliol prodigo che è tornato, certi amori fanno giri immensi prima di riassaporare l’odore, la tangibilità delle radici. Cinque brani in cui si alternano musicisti straordinari, che portano in scena, ognuno in una parte che entra nel tutto, strumenti come flauti andini e charango, il pianoforte di Osvaldo Bellingeri e il bandoneon del grande Dino Saluzzi.

C’è Antonio Pantoja, ignoro chi sia ma suona: anapa, erke, siku, quena, erkencho (!). Dove c’è un basso elettrico c’è Adalberto Cevasco, alla quena Raul Mercado. Su tappeti ritmici che si muovono a ondate, Gato fa esplodere tutta l’energia esplosiva, tutta la potenza di un sax così fisico da tirarti letteralmente in piedi, e così lirico da toccarti il cuore. ‘La China Leoncia’, con le sue stanze che scivolano una nell’altra è un’opera maestosa.

Si sente che è finalmente il sogno che si realizza, tanto che l’ultimo breve brano, ‘Encuentros’, è una sfilata di strumenti a ritmo di quencha argentina, su cui Barbieri preannuncia il Capitolo due: “Chapter Two: Hasta Siempre” parte con la stessa ‘Encontros’, ora però siamo in Brasile: a ritmo di samba il basso di Novelli a gonfiare il tappeto di percussioni poliritmiche e la batteria di Paulinho a riportarlo a terra. Il sax tenore che sale in alto, soffi e stridii che squarciano, per abbassarsi un attimo dopo e lambirti come un’infermiera del cuore.

Tutto il resto è un meraviglioso viaggio, un pentolone bollente in cui si mischiano tradizioni e ritmi che portano indietro di secoli, il sax che si affianca ai flauti andini e girano entrambi come in una giostra, batucade che ti portano dentro un carnevale, Gato che impazza circolarmente come se avesse due polmoni grandi quanto un continente.

“Chapter Three: Viva Emiliano Zapata”, perché “in questo momento particolare in Latino America, non c’è altro da dire” è il terzo anello, che lo ricongiunge con un suo idolo, il grande Chico O’Farrill, musicista e arrangiatore che ha avuto il suo momento nel latin jazz dei tardi ’40, introducendo i primi ritmi latini nel jazz, sottolineando quegli elementi endemici che c’erano sempre stati. Ha scritto le chart per i grandi, la “Afro-Cuban Suite” di Machito, leggendario percussionista cubano, la “Manteca Suite” di Dizzy Gillespie. Gato lo ascoltava da bambino, e sa della sua esperienza con i ritmi latini di tutto il continente.

O’Farrill introduce arrangiamenti di fiati, che danno alla musica di Gato una dimensione ulteriore, un suono ancora più pieno, uno stereo ancora più largo. Una prospettiva ancora diversa. Quindi l’atmosfera cambia ancora rispetto ai primi due Capitoli. Si incide a New York, c’è un clima da anni ruggenti. Un arpeggio e un leggero triangolo introducono il sax su una ‘Milonga Triste’, feeling argentino per un ritmo da habanera, si scivola in un cha-cha-cha, è come sentire un Orchestra latina degli anni 50 con un sassofonista di free ospite d’onore.

Arriva ‘El Sublime’ in 6/8, il ritmo al quale, secondo Michelle, Gato si illuminava, e subito dopo si tocca l’Argentina con ‘La Podrida’. Gato scopre che ‘Cuando Vuelva A Tu Lado’, un vecchissimo bolero messicano del 1934 di Maria Grever che ascoltava da ragazzo, non è altro che ‘What A Difference A Day Makes’, Grammy per Dinah Washington nel 1959 e hit per Ester Phillips negli anni disco-70: Gato la suona lenta e così soavecita che dà un’idea di come continuerà la sua musica negli anni 80.

La title-track, un mambo indemoniato su cui Gato improvvisa senza sosta, chiude un viaggio multiforme, con spirito diverso e ritmi lontani fra loro. Mai didascalico, sempre avventuroso, accessibile ma abbastanza selvaggio da attrarre anche i fanatici del free jazz. È questo il pregio della fusione, evidente summa di una carriera fin lì. Chi aspetta un ulteriore rilancio vedrà invece Gato accomodarsi in un genere meno audace, e da qui in poi (forse per un nuovo contratto con la Casa di Herp Albert, la A&M) ripiegherà su un soft jazz, pop con antichi spunti di libertà (‘Europa’, di Santana, in “Caliente” del 1976 rimane un brano di enorme successo).

Ma questi quattro dischi sono qualcos’altro, qualcosa di prezioso. Rimangono come dichiarazione musicale straordinaria che sottintende anche una visione culturale, e politica. “Una esclamazione della necessità che sentiamo di speranza. Di libertà. Viva Zapata”.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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