La rabbia e gli ormoni
Alanis Morissette e i disastri emotivi della gioventù
Negli anni 60 e soprattutto 70, una generazione di ragazze con (generalmente) una chitarra in mano e un’attitudine trasparente e rivelatoria dei propri stati d’animo, anche quelli più privati, aveva dato il via a uno stile definito “confessionale”: Joni, Laura, Carole, Carly, Sandy, Linda, Rickie Lee, detto così sembra l’elenco di una festa, ma chi le ha amate sa bene che dietro quell’esposizione dei propri traumi esistenziali c’era spesso – oltre all’ambizione di un posto in classifica – la ricerca di una terapia, di un modo per liberarsi di qualcosa che non era mai andato giù.
Vent’anni dopo, lo stile intimista non esiste più. Quello che è successo nel frattempo, e ne sono successe di cose (il punk, il grunge, hip-hop, la nascita dell’indie), ha cambiato la comunicazione, innanzitutto. Non si piange più su un pianoforte o accompagnandosi a una chitarra acustica, ma si spingono al massimo i potenziometri. E quello che una ha da dire, beh, lo urla.
Accidenti, se urla! La nativa di Ottawa, Canada (lacrimuccia, ci son cresciuto all’8 di Jackson Avenue…), arriva sulla scena a 21 anni con tutta la rabbia, anzi, il veleno di cui è capace: nell’estate del 1995 “You Oughta Know” è in tutte le radio e in heavy rotation su Mtv con il più crudo e verace linguaggio immaginabile:
«Voglio farti sapere che sono felice per voi, vi auguro tutto il meglio/Una versione più vecchia di me, ma è perversa come me? Ti farebbe un pompino in un cinema? Parla in modo forbito? E ti darebbe un bambino?… /E tutte le volte che pronunci il suo nome, lo sa che mi avevi detto che mi saresti stato vicino fino alla morte? Ma tu sei ancora vivo…».
E poi il ritornello, urlato e liberatorio, una rabbia feroce e che esplode, la ferita che non si vuol richiudere e che sanguina ancora:
«…E io sono qui a ricordarti del casino che hai lasciato quando te ne sei andato / Non è giusto negare la croce che porto, e che tu mi hai dato/ Tu tu tu lo devi sapere……/ Tu sembri a posto, sereno e tranquillo/ Io no, e pensavo tu lo dovessi sapere/ Ti sei dimenticato di me, Signor Doppiezza? Odio scomodarti nel mezzo di cena/È stato uno schiaffo in faccia la velocità con cui mi hai rimpiazzata, mi pensi ancora quando la scopi?».
L’arrivo sulla scena di Alanis Morissette è un pugno nello stomaco, unghiate che fanno sanguinare. Rolling Stone la definisce «La Regina dell’Alt rock angst». La sua “angst”, bel termine che contiene tutto quello che ruota intorno a “rabbia”, è una nuova femminilità, che non è femminismo, che non è parità dei sessi.
Ha ancora tutte le debolezze di una ragazza abbandonata e sostituita, ma ha anche la determinazione o-la-va-o-la-spacca di chi non ha più nulla da perdere, non sa digerire nulla di quello che è successo, più che dimenticare caverebbe gli occhi al vecchio boyfriend che l’ha mollata (nel 2008 un attore ha ammesso che era lui il tipo, lei non ha mai rivelato nulla). È il primo passo per la guarigione, sputare fuori tutti fantasmi, non tenersi dentro nulla di così doloroso.
Insomma, è lontana da quella attrice-bimba che a dieci anni coi primi guadagni si era autoprodotta un singolo, che dalla tv era passata al music-biz con due album di gran successo in patria da teen-pop star (alla Debbie Gibson, o Tiffany). Seguono un trasferimento a Los Angeles, l’incontro con il produttore Glen Ballard (un curriculum infinito di collaborazioni e scritture, da Michael Jackson agli Aerosmith, da Ringo Starr a Katy Perry), e sulla forza dei demo un contratto con la Maverick, etichetta di Madonna, dopo che tutte le altre Case l’hanno rimbalzata.
Al di là del “pezzo forte”, è comunque un album-diario, nel quale tutto il suo mondo viene messo a nudo, con tanta sincerità quanto spigolosità. È evidentemente specchio di una ventenne più ferita che benvoluta, che si difende da sola attraverso i suoi testi.
Una sorta di Me Too ante litteram. Emblematico in questo “Right Through You”, la storia dell’incontro con un produttore interessato a produrre tutt’altro: «Non mi hai preso sul serio, mi hai preso per una bambina/Hai dato una bella occhiata al mio culo e poi ti sei messo a giocare a golf/ La tua stretta di mano è viscida come un pesce, mi dai le pacchette in testa/ You took me out to wine and dine and 69, ma non hai ascoltato una singola parola che ho detto…».
È un album pieno di singoli, come “Hand In Pocket” e “Ironic” (il suo singolo più venduto), scritto con Ballard, che molti definiscono troppo pop. Ma a lei quella parte di pop serve, non è facile scrivere questo genere di canzoni con orecchiabilità tale da arrivare in classifica.
Un album in cui la sessualità è dovunque, del resto cos’altro aspettarsi da una ventenne in tempesta ormonale ed evidente crisi di identità e di crescita? Sono canzoni che suonano genuine, credibili, l’esplorazione della psiche di una ragazza, ed è probabilmente questo il motivo per cui così tante persone, soprattutto ragazze, si identificano con lei. Con la parte dura, che ha il coraggio di rivelare, e anche con un lato più sognatore, idealista, come in “All I Really Want”.
Ricordate il titolo quasi omonimo (“All I Want”) di Joni da “Blue”? La Mitchell, più cresciuta, romantica ma già consapevole della propria forza diceva: «Tutto quello che voglio che il nostro amore renda possibile è tirar fuori il meglio in me e anche in te».
Alanis, stessa nazionalità, stesso trasferimento a L.A. ma qualche anno di meno e tanti anni dopo canta: «Tutto quello che voglio è pazienza, un modo di cambiare la voce arrabbiata dentro, quello che voglio è liberazione… Cosa non darei per trovare un compagno d’anima…».
Rolling Stone dirà che “Jagged Little Pill” è come una versione anni ’90 di “Tapestry” di Carole King, «un processo di elaborazione del disastro emotivo della propria giovinezza».
Il soft-rock di quella generazione è alle spalle, qui ci sono fior di strumentisti elettrici per dare forza (in “You Oughta Know” ci sono Dave Navarro alla chitarra e Flea dei Red Hot Chili Peppers al basso), per far arrivare il messaggio non con la dolcezza, ma con la veemenza del rock. Non con una voce melodiosa, ma con una estensione da mezzo soprano e una potenza impressionante: ancora adesso, 23 anni dopo, in concerto tiene il microfono a 30 cm dalla bocca, canta di traverso, tanto è il volume.
«Ingoiala, quella piccola pillola frastagliata, è così buona quando galleggia nel tuo stomaco…»: non so se sia uno psicofarmaco, e “You Learn” sia una cugina di “Sister Morphine”, ma certamente l’atteggiamento non è quello della tossica… «Tu vivi… e impari. Tu ami… piangi… perdi… sanguini… urli… piangi… soffochi… preghi… vivi… e impari».
Prendiamo “Jagged Little Pill” come una pillola, se non ancora di saggezza, quantomeno di ribellione. Se non si passa attraverso la ribellione, non si cresce, non si impara, non si va per la propria strada. È questo il messaggio, che evidentemente ha rappresentato qualcosa di importante per le 16 milioni di persone negli Stati Uniti, 33 nel mondo, che l’hanno comprato.
E benvenuta nel mondo a una ragazza che rinforza, porta al successo, in qualche modo crea un genere, coscienza e forza dell’esser donna, che altre riprenderanno: Liz Phair con il suo “Exile In Guyville”, Avril Lavigne, e i tanti gruppi di GRRRls che nasceranno nel decennio successivo, donne che cantano per superare i disastri emotivi della loro gioventù.
Carlo Massarini - Fonte | linkiesta
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