Fleet Foxes - Shore (2020)
di Alessandro Montefameglio
“Summer all over”, ma forse non c’è occasione migliore che l’equinozio d’autunno per un regalo come quello che ci hanno fatto i Fleet Foxes. Ogni volta che si muovono passa una generazione, ma i fortunati che li sentirono nascere, come il sottoscritto, ricordano con affetto il sestetto distillato da un dipinto dai toni settembrini e bucolici di Bosch o di Bruegel, come quello che nel lontano 2008 era diventato il simbolo della band che negli anni della cosiddetta nu new wave – tra le parole più inspiegabili che sono state concepite da bipedi senzienti – spazzavano via vari Franz Ferdinand e Strokes con brani corali e pastorali che sembravano eseguiti in mezzo a una brughiera inglese.
Forse discutere di questo album in base al più recente lavoro, Crack-Up (2017) – ed è una rarità poter dire che Shore esce a tre anni di distanza, dati i tempi mineralogici che i Fleet Foxes si prendono tra un album e l’altro –, potrebbe annoiarci. Molti lo hanno fatto. Personalmente è più stupefacente osservare questo album alla lunga distanza, confrontandolo proprio con i tempi di brani come White winter hymnal e Helplessness blues. Crack-Up del resto non è stato affatto insignificante, nonostante a molti non sia piaciuto, perché ha rappresentato una spinta per una scrittura più complessa e stratificata che probabilmente Robin Pecknold e le altre volpi meditavano da tempo. E in Shore questa spinta è servita per realizzare un album che fa convivere quella maturazione con il suono a cui siamo sempre stati felicemente abituati, testimoniando una capacità ormai sapiente nell’utilizzo della varietà strumentale (le voci, le tastiere, il sax, le percussioni, il materiale elettronico) e compositiva (la scrittura corale, gli abbellimenti, la stratificazione degli elementi, l’hocketing di Meara O’Reilly).
I primi cinque accordi di Wading in Waist-High water potrebbero già durare in eterno. La voce esordisce, simbolicamente e malinconicamente, con “Summer all over” e ci introduce a un lungo viaggio. La delicatezza di questa scrittura non è poca cosa: Pecknold ha utilizzato un immaginario whitmaniano per questi versi leggeri come mollica di pane (complice probabilmente il bisogno di carezza che questo complicato anno ci fa desiderare), che invitano ad accedere ad uno spazio aperto, meditativo, spirituale. «Volevo scrivere un disco che desse un senso di sollievo, che esistesse in uno spazio di soglia fuori tempo» commenta Pecknold. Una soglia, proprio come quel luogo liminale che è la riva, la battima che separa sottilmente due elementi.
Voce e suono tipicamente Fleet Foxes ritornano, senza turbare il clima, in Sunblind, che è un omaggio a grandi musicisti che sono stati accademia per i nostri, come Elliott Smith o Arthur Russell. Brani come Can I believe you e Jara sono il puro teatro dell’inconfondibile timbro vocale di Pecknold, laddove un brano come Featherweight, in cui emerge la profonda tendenza folk del gruppo, sembra, tanto per le pieghe vocali quanto quelle del tessuto melodico della chitarra, abbellito qui e lì da qualche arpeggio, un brano nostalgico, alla Simon & Garfunkel (alcuni timbri di A long way past the past ricordano, peraltro, Graceland). For a week or two è un brano quasi a cappella, piovoso: qui la voce corale che così bene conosciamo si intreccia a qualche innocente nota di pianoforte e persino al cinguettio degli uccelli, lo stesso cinguettio che farà volare verso le più movimentate e solari Maestranza e Young man’s game. I’m not my season è un brano folk da manuale, come se fosse direttamente ispirato a Jim Croce o Kenny Rankin (così Thymia). Particolarmente efficaci sono il punto di culmine Quiet Air / Gioia, dove semplici ingredienti come voce e percussioni (con qualche intervento di fiato e di piano) convivono con i versi vitalistici di Pecknold (“Oh devil walk by / I never want to die”), e Going-to-the-sun Road (il riferimento è a una strada di montagna delle Montagne Rocciose) in cui l’inaspettata, bellissima voce brasiliana di Tim Bernardes anticipa un solitario sax stetsoniano, impazzito, lo stesso che farà da tappeto, assieme a qualche intervento più elettronico, in Cradling mother, cradling woman. La title track conclude quest’anello con un pensoso brano vocale e pianistico – e il finale è una traccia che si perde sulla sabbia.
Io non me l’aspettavo. Che lo si voglia o no i Fleet Foxes del 2008 sono cresciuti – del resto non sono molto saggi i giudizi di chi vorrebbe che una band scriva per sempre lo stesso album. Tra i collaboratori, non pochi: Uwade Akhere, Chris Bear, Homer Steinweiss, i già citati Meara O’Reilly e Tim Bernardes, Hamilton Leithauser, Daniel Rossen, Kevin Morby, Marta Sofia Honer, Michael Bloch e Beatriz Artola.
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