Miles Davis - In A Silent Way (1969)

Ogni volta che vedo una sua foto, oltre notare il suo fascino magnetico, mi hanno sempre meravigliato due cose: il suo sguardo fiero, carismatico, da leader, a sfidare chiunque, e la curiosità dei suoi occhi scurissimi. Miles Davis è stato una divinità della musica, c’è poco da fare. Inizio l’anno delle storie musicali con uno dei suoi dischi più belli e famosi, che è stato uno dei più grandi tentativi di contaminazione tra musica jazz e musica rock, gravosità che solo un gigante come lui poteva sopportare. Nell'approssimarsi del decimo anniversario di quella che è una delle pietre di paragone della musica del ‘900, sto parlando di Kind Of Blue (1959), Davis con il suo secondo quintetto “classico” verso le fine degli anni ‘60, molto incuriosito dalla nuova e fragorosa stagione del rock, accetta di aprirsi sia agli strumenti elettrici (prima eresia per i puristi) e poi a strutture e ritmi rock (seconda eresia) che di fatto aprono la strada al jazz fusion. Il percorso di Davis è graduale ed inizia con la registrazione del famoso Miles In The Sky (1968). La copertina psichedelica e il titolo che fa il verso alla leggendaria Lucy In The Sky With Diamonds dei Beatles sono l’occasione per Davis, insieme a Wayne Shorter, Chick Corea, Tony Williams e Ron Carter per iniziare a contaminare il jazz di sonorità rock: tutto l’album è suonato nel classico tempo di 4/4 della musica rock e George Benson suona la sua chitarra elettrica nella stupenda Paraphernalia. Il risultato è contrastante, e già il successivo Filles De Kilimanjaro ritorna al suono “acustico” anche se la Fender Rhodes di Herbie Hancock è l’aggiunta decisiva per il nuovo suono davisiano. Il passo decisivo avviene nel luglio ‘69: Davis ingaggia il tastierista di origini austriache Joe Zawinul che insieme a Corea e Hancock formano una squadra di tastiere da sogno, Shorter al sax, Dave Holland ad basso e richiama Tony Williams alla batteria. Il quale per un suo progetto solista, The Tony Williams Lifetime, aveva ingaggiato un talentuoso chitarrista inglese, John McLaughlin, figlio della blues invasion britannica di qualche anno prima. Leggenda vuole che Davis lo incontri il giorno prima delle registrazioni e che lo inviti il giorno successivo a farne parte. Sia come sia in due leggendarie sessioni, il 18 e il 20 Febbraio 1968, l’album prende forma. Due lunghe composizioni, una per lato: Shhh/Peaceful e In A Silet Way/It’s About That Time rispettivamente a firma Davis e Zawinul-Davis. I due brani sono strutturati nella forma classica di preludio, svolgimento del tema musicale e finale. La struttura è particolarmente efficace in Shhh/Peaceful, dove il tema iniziale viene ripreso uguale grazie al montaggio in post-produzione di Shhh che è uguale sia nel preludio che nel finale. Questo passaggio mi permette di dire due cose sul leggendario produttore di Davis, Teo Macero. Dai detrattori considerato un mitomane, un pigmalione pazzo che si serviva di Davis per esperimenti musicali, in realtà è stato un grande sassofonista e musicista prima, e poi uno dei rivoluzionari delle tecniche e delle registrazioni musicali. Facendo propri gli insegnamenti di uno dei suoi maestri, Edgar Varese, che non fu solo un geniale compositore ma un genio della registrazione musicale, Macero porta la post-produzione nel mondo del jazz, considerata uno smacco al pensiero libero e senza costrizioni della musica stessa, ma che invece diverrà decisiva nella storia della musica anche al di fuori dell’ambito jazzistico. Musicalmente l’album è di una freschezza, di una creatività e di una forza con pochi paragoni ed epigoni, e suona decisamente innovativo a quasi 40 anni di distanza. La tromba di Davis è cattiva, furiosa, caotica nella prima facciata, e dolce ma energica nella seconda, la struttura sonora delle tastiere e del piano elettrico è di sconvolgente vivacità, i contrappunti del sax di Shorter e della chitarra di MacLaughlin pennellate di colore musicale vivaci e perfette. La critica si divise, quella jazz si rifiutò persino di recensirla, dato che la considerava una pura opera rock. Dall’altro lato, i critici rock furono entusiasti, e storica è la recensione che Lester Bangs scrisse per Rolling Stone. La strada del jazz rock, della fusione dei due stili, divenne ancora più concreta in quell’altro capolavoro immenso che fu Bitches’ Brew che fu pensato a pochi mesi di distanza da In A Silent Way. Sta di fatto che ad oggi i due sono considerati non solo dei capolavori immensi della cultura musicale occidentale, ma vere e proprio rappresentazioni storiche di un periodo di grandi cambiamenti che si riflettevano anche nella musica. In tutto questo l’unico modo silenzioso di esprimersi era il titolo di questo disco.


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