Joni Mitchell - Hejira (1976)
Il mese di viaggi musicali si conclude con un disco che Joni Mitchell scrisse durante un viaggio in macchina, dal Maine alla California, nel 1976. La grande cantante canadese sola con la sua chitarra disegna canzoni che sanno di autostrade, animali delle praterie, ricordi di viaggiatrici, amori consumati in motel. La copertina, stupenda (messa da Rolling Stone tra le più belle di tutti i tempi) ne anticipa i toni, nello scatto stupendo di Norman Seeff: il fotografo sudafricano, vincitore di molteplici Grammy per i suoi lavori di design musicale, tra i più grandi e significativi di sempre, ferma la Mitchell su un lago ghiacciato (uno dei luoghi mito della poetica della cantante canadese), mentre sul suo vestito nero si sviluppa verso l’infinito una strada deserta. Mitchell chiamò questo disco Hejira prendendo spunto dall’egira coranica: in inglese il trasferimento di Maometto e i suoi seguaci da la Mecca a Medina del 622 d.C. si scrive Hegira o Hjira, Joni ne fa una mix, utilizzando la fonetica della J nello stesso modo in cui gli Steely Dan intitoleranno Aja il loro capolavoro del 1977. Le registrazioni avvennero presso gli A&M Studios di Los Angeles; la Mitchell si affidò ad una squadra di sessionisti favolosi, da Larry Carlton alla chitarra a Max Bennett al basso, da John Guerin alla batteria alla favolosa percussionista Bobbye Hall, ma il disco è ricordato per l’inizio di collaborazione con Jaco Pastorius, il cui basso fretless disegna strutture sonore fluide e armoniose e la presenza in un brano dell’amico di sempre Neil Young all’armonica. Forse proprio perchè pensato e abbozzato solo con la chitarra, è il primo disco di Joni MItchell senza parti di pianoforte, e il gusto e lo stile musicale vira decisamente verso atmosfere jazz e che potremmo definire fusion, che verranno riprese e decodificate meglio nel suo album tributo Mingus del 1979. In scaletta 9 brani, 9 quadri dalle tinte leggere ed evocative, 9 storie di viaggio cantate dalla sua voce splendida, questa volta anch’essa dai toni “minori”, con grande attenzione ai testi e alle storie. Coyote è la storia di un incontro fugace tra un’autostoppista e rancero, metafora del desiderio di contatto umano dopo mesi di solitudine (No regrets, coyote/I just get off up aways/You just picked up a hitcher/A prisoner of the white lines on the freeway). Amelia è dedicata all’aviatrice Amelia Mary Earhart, prima donna a sorvolare in solitaria l’oceano Atlantico, scomparsa con suo aereo mentre attraversava il Pacifico nel 1937: ogni strofa si chiude col verso «Amelia, era solo un falso allarme», e dietro il viaggio c’è la metafora della fiducia, dei rapporti personali, del fidarsi delle persone sbagliate. Furry Sings the Blues è ispirata da un incontro a Memphis tra la Mitchell e l’anziano chitarrista e cantante Furry Lewis e vede Neil Young all’armonica, suonata come se fosse una tromba: è un ritratto quasi spietato di un passato glorioso (locali, belle donne, divertimento) con un presente fatto di banchi di pegno e di coloro toccati da «malasorte, tempo, ed altri ladri». Hejira, canzone che dà il titolo all’album, è malinconica e sognante, con uno dei testi più belli della carriera della Mitchell si chiede: Noi tutti veniamo e andiamo ignoti/ognuno così profondo e superficiale/tra il forcipe e la pietra. Song For Sharon è uno dei suoi brani più belli e conosciuti, profondamente autobiografica, sui rapporti sentimentali di una donna che ebbe storie burrascose, spesso raccontate in musica (come non ricordare il suo massimo capolavoro, Blue, uno dei dischi più belli di tutti i tempi, dedicato all’amore bellissimo ma difficile con il compagno cantante David Blue). Nel brano una cantante nota un abito da sposa in una vetrina di Staten Island, dove si è recata per comprare un mandolino e «affrontare il malfunzionamento del sogno», cioè capire cosa sia l’amore. Il «lungo abito bianco dell’amore» le fa ricordare una serie di oggetti, di situazioni: le candele di una chiromante al Greenwich Village; una conoscente suicidatasi in un pozzo profondo, i ricordi d’infanzia in un paesino canadese dove la cantante, dondolandosi sull’altalena, fantasticava sui matrimoni a cui aveva assistito; i turbamenti dell’adolescenza, i primi amori inseguiti pattinando sul ghiaccio coi ragazzi e «le calze di nylon di mamma sotto i jeans da cowgirl», sognando pizzi e campane, prima i baci poi le lacrime. Un capolavoro di testo e musica, in un flusso di coscienza di grande suggestione dedicata a Sharon, la sua amica del cuore, il suo appoggio e il suo punto di sprone, e ai loro destini incrociati: un grande capolavoro musicale. Black Crow è una ballata dove l’immagine del corvo che ruba ciò che luccica è l’esempio per l’uomo di ciò che è importante. Blue Motel Room è un’altra storia di passaggi: un blues lento e delicato che racconta una notte d’amore di due ex amanti, distanti tra loro, e che sperano nel profondo di tornare insieme, illudendosi a vicenda. Refuge of the Roads, che chiude il disco, fu ispirata a un incontro con un maestro di meditazione buddhista: la Mitchell non risparmia ironia e uno sguardo piuttosto scettico sulle abilità del santone. Un disco che è pieno di quello spirito selvaggio e solitario del midwest americano, dei suoi luoghi sperduti, dei suoi animali. Un disco che all’epoca non vendette molto, interropendo una serie di successi della cantante, ma che con il passare del tempo è diventato uno dei suoi dischi più belli e apprezzati, un disco elegante, suggestivo, cantato e suonato con massima maestria, un viaggio musicale che lascia i colori sbiaditi, ma che segna le sensazioni e le emozioni.
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