Due zollette di Brown Sugar

Voodoo è un afrodisiaco sonoro da gustare perdendosi nel groove

D’Angelo, vero nome Michael Eugene Archer, è uno di quegli artisti che in qualche modo personifica tutto il meglio e tutto il peggio – creatività e paranoia, in estrema sintesi – che possa passare per la mente di un artista di successo. Mi spiego. Nel 1995, D’Angelo crea praticamente da solo un genere, un’etichetta, una sensibilità. La chiamano neo-soul (ricorda vagamente il new wave di 15 anni prima), e come tutte le etichette – nate per stare strette agli artisti stessi – vale giusto come indicazione. Come un cartello stradale.

La definizione la inventa Kedar Massenburg, uomo marketing e influente manager prima di un gruppo rap, gli Stetsasonic, e poi di D’Angelo stesso ed Erika Badu. Vuol significare un incontro, di per sé già promettente, fra la tradizione antica e santificata del soul e quell’urban e hip-hop culture che negli anni 90 ha ormai pervaso la black community. Ma nel caso di D’Angelo, c’è in realtà molto di più.

Il nativo della Virginia, figlio di un predicatore Pentecostale, evidente talento musicale fin da bambino, emigrato a NYC dopo che col suo gruppo virginiano vince una Amateur Competition all’Apollo Theatre, si ritrova nella metropoli a soli 18 anni, ma non si perde d’animo. Nel giro di un paio d’anni si fa notare, suona in giro, scrive ‘U Will Know’, un singolo di grande successo per un supergruppo di artisti black del momento, Black Men United, che comprende Usher, R.Kelly, Boyz To Men, Raphael Sadiq (l’ultimo rimarrà un amico e co-autore). Torna ogni tanto a casa per suonare con i vecchi amici, ed è anzi con loro che incide un demo che arriva fino alla EMI. Lo convocano, e lui improvvisa tre ore al piano, da solo. È evidente che sia un talento notevole, ottimo cantante e compositore. Personalità da vendere.

Gli show case fanno salire le aspettative. Nel 1995 esce “Brown Sugar”, il disco parte lento ma a poco a poco cresce (come del resto la sua musica, ascolto dopo ascolto) e alla fine esplode: nel mezzo di un momento di stanca per il r’n’b, ormai pilotato dai produttori con un suono digitalizzato che lo spersonalizza, il New Jack Swing che sta passando, arriva qualcosa di totalmente nuovo.

È un album austero, che riporta alla black music di un ventennio prima, fondendo elementi di Prince, Smokey Robinson, Sly & Family Stone, Marvin Gaye, oltre a quelle che considera le principali influenze sulla sua direzione musicale: Hendrix, Fela Kuti, Al Green e Parliament/Funkadelic.

I temi sono sempre quelli – amore, sensualità e, abbastanza mascherata nella title-track, una ode all’erba – ma la maniera di interpretarli di D’Angelo è morbida, sexyssima, la voce che ammicca e si fa desiderare, creando una tensione sessuale vera, non finta come molta musica del periodo. Il groove è ipnotico, rilassato, musica da candele e rossetto sul cuscino e lenzuola sfatte, che incorpora elementi della tradizione – soul, gospel, jazz, blues – in una dinamica e un sound denso e moderno, mai scontato, raffinato e commerciale insieme (la title-track ne è un esempio memorabile).

Il successo lo travolge, essere descritto come colui che «ha fatto risorgere la black music come la Fenice dalla sue ceneri», come scrive Rolling Stone, è un po’ troppo per un ragazzo di ventuno anni, per quanto talentuoso e narcisista. Passa due anni in tour e poi viene sopraffatto da un blocco dello scrittore che è un freno inaspettato, spiegato con un «le canzoni non vengono così, anche se cerchi disperatamente di scriverle, tu scrivi di quello che vivi, come fai a scrivere se non vivi?».

Nel frattempo fa collaborazioni, come quella con Erika Badu che ricorda quelle fra Marvin Gaye e Tammi Terrell 40 anni prima, o sul primo album di Lauryn Hill. Secondo la sua biografia passa il tempo «facendo musica, fumando erba e sollevando pesi».

Finalmente, a gennaio 2000, esce il secondo album, “Voodoo”. È un grande passo avanti, una consacrazione. È un disco particolare, in cui la classica struttura di sequenza-di-canzoni c’è ancora, ma labile, a differenza di “Brown Sugar” va piuttosto inteso come un unico flusso, una atmosfera che avvolge tutto il disco, un groove di base sul quale appoggiare tante soluzioni sonore. In molti brani, è anche abbandonata, o appena accennata, la struttura tipica strofa-ritornello-strofa.

È il risultato di una session notturna infinita, tutto l’inverno negli Electric Ladyland Studios, in compagnia di alcuni dei migliori musicisti in giro: da ‘?Love’ dei Roots a Raphael Saadiq, Pino Palladino, il rapper Q-Tip, il trombettista jazz Roy Hargrove. Brani registrati spesso in diretta, senza sovraincisioni, in modalità decisamente free, che danno un feeling simile a una jam di stampo jazzistico.

Il missaggio analogico e le tecniche di produzione old-school danno a tutto l’album un suono che è vintage, un update di alcuni classici del passato, ‘Move On Up’ di Curtis Mayfield o ‘Let’s Get It On’ di Marvin Gaye o ‘Hot Buttered Soul’ di Isaac Hayes. O, se vogliamo avvicinarci negli anni, le jam dei Parliament/Funkadekic di George Clinton.

Batteria sempre in primo piano, hip-hop a volte leggero, a volte puro funk bello pompato, spruzzi di elettronica e tocchi di scratch sui piatti, basso elettrico gigantesco, trombe in sapore jazz, la sua voce in primo piano, ma sempre senza fretta, senza forzature. La sua cifra non è lo scandito, la forza, ma le nuances, i dettagli. Del resto, tutto l’album è ricco di sottigliezze che sfuggono a un ascolto non attento. Ma se ti perdi nei groove, ci sono sorprese continue. Come è stato definito, un afrodisiaco sonoro.

Ci sono ospiti (in un brano i rapper Method Man e Redman), ma la cosa che affascina più di ogni altra è il lavoro complesso che D’Angelo fa sulla voce: una voce guida, forse due, coretti dietro che contrappuntano, voci usate come ritmo (alla Bobby McFerrin), che duettano fra loro o con gli strumenti – siano la chitarra o la tromba di Roy Hargrove.

Il fatto è che non sono seconde voci, o coristi: tutte le voci sono di D’Angelo stesso, un intricato lavoro di multi-tracking che caratterizza ogni brano. Un lavoro certosino, come complessità e precisione, come avere un gruppo intero alle spalle. Ma questa è la qualità di D’Angelo: non solo le voci, dove non ci sono ospiti suona comunque lui tutti gli strumenti.

Sulle note di copertina, D’Angelo scende anche in polemica con l’ambiente hip-hop, accusato di essere frivolo, commerciale, senza innovazione: «Sembra che siamo più preoccupati nel coltivare i nostri conti bancari che la nostra capacità. Vedo i miei colleghi più ispirati dalle tattiche di business che la loro capacità artistica. Personalmente, credo nell’arte come nella frase attraverso l’arte, Dio, arte come connessione fra l’individuo e un Sé più alto, o con l’universalità. In questo senso, la maggior parte degli MC’s dovrebbero essere imbarazzati. Perché attacco l’hip-hop? Perché sono un autore testi che deve farsi bastare la sua ispirazione quando la maggior parte dei miei colleghi sembra idolatrare Donald Trump più di Sly Stone, quando non capiscono che Jimi Hendrix era ed è un Bill Gates sonico».

Il disco esordisce al numero 1 in America, ma come è stato per il primo album, D’Angelo evidentemente regge a fatica tutto il polverone che questa volta sale ancora più alto. Non è solo diventato una star, ma un sex-symbol, oltreché per lo sfoggio di torso nudo, tatuaggi, bicipiti e tartarughe, anche a causa del video di “Untitled (How Does It Feel)”, un brano in falsetto che richiama Prince: un’inquadratura che gli gira intorno, nudo fin ben sotto la cintola, a giudicare dai commenti su YT (video vietato ai minori, i soliti americani puritani), un super-macho da mangiarsi con gli occhi e con tutto quello che hai.

Quando partirà il tour, D’Angelo si troverà a fronteggiare più gente che vuole che si levi i vestiti di quelli che vanno lì per la musica, avrà diverse crisi, ritarderà e annullerà concerti, e finito malamente il tour, sparirà.

Pieno di paranoie, al limite dell’esaurimento e oltre, problemi con alcool e droghe, licenziamento di tutto il suo staff, disintossicazioni in Centri di recupero, ingrassato, anni passati in silenzio artistico.

Fino al ritorno nel 2014 con “Black Messiah”, forse finalmente stabile, perché quando ne ha, su disco e dal vivo, D’Angelo è uno spettacolo. E, come per “Brown Sugar”, “Voodoo” porta un Grammy per miglior album di R’n’B e uno per migliore performance vocale per ‘Untitled (How Does It Feel)’.

L’album si chiude prima con “Untitled (How Does It Feel)”, con la sua maxidose di sensualità che cola come rivoli di sudore sulla tartaruga, e poi con Africa, la ricerca di un rifugio spirituale, un’eredità da passare ai suoi figli. Nato come un canto d’amore per il primogenito, spiegherà, è diventato anche un canto per la Storia, l’Africa e Dio:

«…Fin dal giorno che sei venuto, tutto il mio mondo ha cominciato a cambiare/Ho capito lì che avrei dedicato la mia vita alla tua/Ogni giorno lo vedo crescere e ricordarmi quello che so già / Ricevo l’amore che irradia dalla tua luce».

Questa chiusura riporta D’Angelo nella tradizione che è stata del jazz, del blues, di ogni musica nera: tentazione e salvezza, l’inestricabile mix, come un’elica del DNA, fra sesso ed estasi, la metafora dell’amore per una donna (o per un figlio) come metafora dell’amore per il Signore. Questa è la black music, canzoni che “come il voodoo sono allo stesso tempo spirituali e secolari, sensuali e sacre, materiali ed eteree”.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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