Blue di Joni Mitchell: un album da riscoprire

di Elisa Agostinelli

Ci sono artisti con i quali saremo in debito tutta la vita. Joni Mitchell è una di queste: non so quali vie traverse e fortuite mi abbiano condotto alla sua musica, durante l’adolescenza. Perlomeno in Italia il suo nome è pressoché sconosciuto, o dimenticato: non si direbbe che rappresenti la figura più influente tra le cantautrici del ventesimo secolo.

Il suo quarto album, Blue (1971) considerato uno dei migliori mai scritti, rappresenta una delle (tante) vette della sua produzione artistica. Joni non è militante: i suoi ideali si nascondono dietro allusioni, mai perentoriamente. La sua non è un’opera cantautorale impegnata, non vi sono pretese di rappresentare una generazione: eppure sarebbe riduttivo definire la sua arte intimista. Con delicata naturalezza, Joni si fa cantrice di se stessa: la lira è la sua chitarra, i temi affrontati ripercussioni indelebili della sua storia quotidiana, tracciata da incontri, viaggi vissuti, libertà rivendicate, tesori da custodire. Più che intimista, Joni è “diaristica”: l’impressione è che attraverso le sue canzoni, attraverso i suoi testi, ella cerchi di tracciare un diario della sua esistenza, dei suoi sentimenti, dei suoi incontri. E “Blue” ne rappresenta il cardine quanto l’apice: ogni testo, per quanto letteralmente comprensibile, nasconde sempre qualcosa di esistenziale, una riflessione dolorosamente sentita, che dal personale ingloba l’universale.

La traccia d’esordio All I want, rappresenta non a caso il manifesto lirico della cantautrice. La solitudine, il viaggio, la voglia di vivere e di essere, irrompono in questo autoritratto come lineamenti fondamentali. L’amore, mai veramente e del tutto protagonista, è annesso e garante indispensabile della libertà, non solo verso se stessi ma anche verso chi si ama. Spicca dunque la genuinità di un sentimento fresco, indipendente, che rifugge a barriere e legami, che si nutre di quotidianità. In My old man Joni rifiuta infatti il matrimonio (“We don’t need no piece of paper from the city hall/ Keeping us tied and true no, my old man”), nell’idea di vivere la relazione semplicemente così come accade, senza alcuna legittimità forzata. L’abbandono dell’amante lascia dietro di sé ancora una volta, una quotidianità spezzata, irregolare: “The bed’s too big/ the friyng pan’s too wide.”

La terza traccia, Little green è riferita al nome-amuleto con cui Joni battezza la figlia che cederà in adozione. Ragazza madre come ella si definisce (“child with a child”), non avendo risorse per occuparsi di lei, è costretta a lasciarla andare. Il rimpianto della maternità interrotta ritornerà nella meravigliosaRiver, ottava traccia dell’album. Il fitto dolore per il distacco dalla figlia si intreccia allo sfondo di un Natale atipico, senza neve né ghiaccio, in cui dalla disperazione ella vorrebbe soltanto fuggire da se stessa: “I wish I had a river, I could skate away on”.

E proprio come le note di un diario, Mitchell alterna il viaggio al ritorno, la nostalgia della propria casa (California) alla spensieratezza di un peregrinare che si lascia tutto alle spalle (Carey); o ancora, la vitalità alla disillusione. La settima traccia This flight tonight racconta non tanto la fine di una storia d’amore, ma dell’abbaglio che la sorreggeva: “Sometimes I think love is just mythical”. Lo stesso disincanto di The last time I saw Richard, in cui avviene la disgregazione di un certo sentire “romantico”, prerogativa della giovinezza e dei suoi falsi miti, che abbraccia tutta la delusione di una generazione che perisce a causa dei suoi stessi sogni. Richard è in grado di vedere oltre, in grado di comprendere che “tutti i romantici avranno un giorno lo stesso destino/ cinici ubriachi mentre annoiano qualcuno in qualche oscuro cafè”, e di questa sua visione ne diviene esso stesso vittima, incapace di sfuggirla.

Blue, traccia che dà il titolo all’album, è un inno struggente dedicato a quello stato d’animo poco definibile e traducibile tra la tristezza e la malinconia, inespugnabile come “inchiostro su una spina/sotto la pelle (ink on a pin/ underneath the skin)”. È questa, insieme a A case of you a rappresentare due delle canzoni più celebri della Mitchell. A case of you interpreta la passione amorosa con la raffinatezza tipica della cantautrice, una passione che si nutre di ricordi, di memorie, di visi abbozzati, di parole sussurrate. Emerge ancora una volta la concezione d’un amore mai possessivo, mai nocivo, che pur nel suo essere travolgente, è incapace di separarsi dall’ingegno artistico, e proprio per questo si riconferma garante della libertà:

Oh, you are in my blood like holy wine
You taste so bitter
And so sweet, oh
I could drink a case of you darling, and I would
Still be on my feet
Oh, I would still be on my feet



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