Miles Davis - Bitches Brew (1970)
Basterebbe solo la copertina di Mati Klarwein (che per una volta propongo sia aperta che chiusa), che disegnerà anche quella magnifica di Abraxas di Santana, per farlo passare alla storia. Woodstock è appena finito e quello che già all’epoca era una divinità della musica, Miles Davis, entra in studio, con la fidata banda che già aveva fatto cose inaudite in In a Silent Way (1969) inventando di fatto il jazz rock. Ma se quell’album era il dolce vento di prima primavera che captava le nuove forme espressive della musica nera (facendo già inferocire i critici ed i puristi) quello che Davis fa per Bitches Brew (che uscirà nell’aprile del 1970) riscrive la musica contemporanea. La copertina ne è anticipatrice: il fiore della stagione dell’amore va in fumo e si trasforma in una nuvola portatrice di tempesta, e gli intrecci bianchi e neri (musica bianca e nera, con quest’ultima che attinge alle radici etniche africane), complementari ed armonici, fanno della musica di questo capolavoro assoluto uno dei punti più alti (e controversi, ma era inevitabile) della musica del ‘900. Davis entra in studio e con la sua tromba dirige in tre giorni di registrazioni mistiche ed irripetibili una super band composta da: due batterie Jack DeJohnette e Lenny White, due strumenti a percussione, Don Alias, Juma Santos e Airto Moreira, due sassofoni, quello soprano di Wayne Shorter ed il clarinetto basso di Bennie Maupin, tre pianoforti elettrici, Chick Corea, Joe Zawinul, Larry Young, due bassi ,quello acustico di Dave Holland e quello elettrico di Harvey Brooks e la chitarra solista di John McLaughlin. Non è solo commistione tra jazz e rock, è qualcosa che va oltre: i 50 minuti della prima facciata, dominata da Pharaon’s Dance e Bitches Brew (dove la tromba di Davis è editata in studio, sotto il lavoro maniacale di Teo Macero in produzione, dai detrattori dell’album scandalo indicato come il vero deus ex machina del progetto) ridisegnano le coordinate, spiazzano, con complessità, dissonanze che fanno pensare alla musica di Stockhausen. Il lato B è ancora più sconvolgente, con il ritmo rock di Spanish Key e John McLaughlin (dove Davis non suona nemmeno) tutto dominato dal duello rock-funky tra il piano di Corea e la chitarra di John. Miles Runs the Voodoo Down, che diviene famosissimo, è quasi blues, ed è davvero trascinante e magnetica. E per capire l’estasi creativa basta ascoltare la riedizione di Sanctuary, brano di Shorter che qui inizia come I Fall in Love too Easily di Chet Baker ma si trasforma in altro, con melodie ardite ed eccitanti. Due ultime cose: il titolo Bitches Brew non va tradotto letteralmente (tipo degli improbabili “brodo di cagne” che si trovano proposti nella rete) sebbene il riferimento allo slang bitch come “puttana” abbia leggende di contorno davvero eccezionali, come una che chiama in causa una specie di gruppo di groupie, tra cui la fidanzata di Jimi Hendrix, che in quel periodo bazzicavano Davis (che è stata per fama, denari, carisma, donne e auto lussuose sfasciate rock star prima di qualsiasi altra rock star) e a cui forse l’album è dedicato, bensì al significato di bitching come “roba buona”: il titolo significa “questa è proprio roba buona”. Seconda cosa: non fatevi spaventare dalla complessità, dalla lunghezza dei brani (il disco è stato comunque uno dei lavori di musica jazz più venduti di sempre): ne vale la pena per vivere un viaggio emozionale senza precedenti, che ancora oggi, a distanza di 45 anni, suona nuovo, fresco, inimitabile.
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