La band dei sogni

Sono arrivati come un fulmine a ciel sereno, e per un attimo sono stati – e non ho certo mancato di trasmetterlo – la band dei miei sogni. Perché solo miei, poi? Una band così non può essere la band dei sogni di chiunque?

Intanto, il contesto. Primi anni ‘80, li ricordate? Da una parte i reduci della disco, dall’altra gli esegeti del post-punk, poi ovviamente quelli che nel punk c’erano rimasti, il reggae in crisi con la morte di Bob e l’esplosione della musica elettronica, tastierine tech e campionatori ovunque. Mica finito: vestiti tutti con le spallone, capelli cotonati, bei ragazzi che sembravano ragazze, make-up esagerati, creste dovunque. Parola d’ordine, il look.

Ecco, la “band dei miei sogni” con tutto questo condivideva solo l’ultima cosa. Per il resto, Kid Creole & the Coconuts non avevano nulla da spartire con tutto il resto. Erano la fantasia estrema di uno scienziato pazzo, con un frullatore gigante (con la fettina d’ananas sul bordo) nel quale aveva buttato di tutto: ritmo, humour, i tropici e l’America latina, le Big Bands anni ‘40, la smartness di strada e lo stile (e il vestito) di Cab Calloway, il funk e lo swing-jazz, danzatrici bionde voluttuose e un cantante stilosissimo vestito con uno Zoot Suit. Un personaggio da fumetto vivente con fantasie tropicali, bulli e pupe perennemente nei guai.

Uno scienziato pazzo, o magari solo un ragazzo del Bronx con molte fantasie e un gusto per le contaminazioni embedded fin dall’inizio nel suo dna. Perché è lì che nasce, nel 1950, Thomas August Darnell Browder, all’inizio basteranno i due nomi centrali, August Darnell.

Madre dalla Carolina con sangue caraibico e italiano, papà dalla Georgia. Il Bronx, negli anni ‘50, era il vero melting pot newyorkese: latinos, italiani, afroamericani, jazz, blues, doo-wop, r’n’r, Big Bands, balli di tutti i generi. E poi, l’iconografia: vestire bene per i jazzisti, per qualsiasi musicista, era d’obbligo. Quando le orchestre suonavano, ogni fiato sedeva dietro il suo stand, ognuno era impeccabile, il Conte e il Duca erano maestri di stile. Lo stile!

August cresce lì, in mezzo a tutto questo, mette su una band col fratello, ma lascia per fare l’insegnante di inglese, e iscriversi all’Università di Drammaturgia. Gli piacerebbe fare l’attore, si dirige verso la musica perché “attore frustrato”. E allora di nuovo col fratello Stony Browder nel 1974 mette su una band strana, dal nome infinito: Dr. Buzzard’s Original Savannah Band, un mix di ritmi swing, disco, musica latina in uno scenario alla Broadway.

Subito un LP e un hit da discoteca, “Cherchez La Femme”, ma quando dopo altri due LP il successo sfuma via, saluta la solare cantante Cory Daye e dopo un lustro come bassista, autore e band-leader-comandante August se ne va, portando con sé il nostromo perfetto, Andy Hernandez, nome d’arte Coati Mundi. È chiaro che vuol fare qualcosa di simile, ma molto più in grande stile.

Diventa produttore per la ZE Records, una delle etichette indipendenti newyorkesi, in catalogo da Bill Laswell e John Cale a James Chance e Arto Lindsay. Nel 1980 cambia nome, diventa Kid Creole, ispirato da King Creole, uno dei tanti film dell’Elvis hollywoodiano.

Il personaggio del Ragazzo Creolo è per sua definizione un “devil-may-care bon vivant”, un menefreghista dalla bella vita, e il Kid ha le frasi facili, le battute veloci, e la fantasia cinematografica per creare un mondo di semi-fantasia nel quale muoversi.

Si vede che è un uomo di mondo, elegante nel suo Zoot Suit, quell’abito a vita alta, gamba larghissima e fondo stretto, con giacca a spalle larghe e molto lunga, a volte con le code. È reso popolare dai jazzisti, e va di moda negli anni ‘40 presso le comunità latine, afro-americane, italo-americane, accoppiato sempre a cravatta e un cappello in tinta, un porkpie hat o un fedora.

Cronaca vuole che lo vestisse anche un giovane Malcolm X, che lo definì: «Un cappotto killer-diller coat drappeggiato, pieghe e spalle imbottite come un vestito lunare». Considerato un abito elegante e costoso, tanto da provocare una guerra con chi lo voleva abolire durante la Seconda guerra mondiale, essendo troppo costoso e lavorato in un tempo di restrizioni. Nel corso degli anni, Kid ne indosserà decine di modelli diversi, a volte sostituiti da quell’abito con calzoni sotto al ginocchio, calzettoni e berretto tipo scoppola.

Trovato look e tema, Kid mette su una nuova band, Coati Mundi a scrivere con lui, produrre e a fare il matto sul palco. La bionda moglie svizzera Adriana Kaegi a inventarsi le coreografie con altre due superbionde, coriste solo per caso, in realtà coprotagoniste femminili dello show. Supermusicisti a riprodurre, in sala e dal vivo, il mix che insegue da sempre.

Il primo album, “Off The Coast Of Me”, ha una copertina che sembra scattata sul set di Tarzan: donne leopardate, esploratori col casco, palme e frasche, tutto visibilmente finto. Il primo brano, giusto per far capire che qui si fa sul serio ma nessuno si prende sul serio, è “Mr. Softee”, una presa in giro dell’uomo macho, con le tre pupe lo sfottono, «Signor Moscetto», e lui che tenta goffamente di replicare.

Fra slap bass e giri di salsa, cassa disco in quattroquarti e orge di percussioni trinidadiane si naviga «Al largo della mia costa», la title-track una languida serenata fra Caraibi e Hawaii proveniente da un radio a transistor, mentre leggere percussioni sottofondano. Manca solo il Martini, o un mojito.

Finalmente il progetto è a fuoco, ora c’è solo da perfezionarlo: il secondo LP, “Fresh Fruit In Foreign Places”, diventa anche produzione teatrale al New York Public Theatre, un diario di viaggio musicale in territori di fantasia. Improvvisamente, il mondo si sveglia: uno degli album dell’anno sul Village Voice di New York City, nei primi 10 in Gran Bretagna sul Nme.

Il New York Times si lascia andare: «LP straordinario. La fusione di stili pop e ritmi da ballo più fresca e intelligente da molti anni a questa parte». Lui al Times commenta: «Una maniera di guardare al viaggio che intraprende Kid Creole sull’album è giustificata dai molti stili che coesistono nella nostra musica. È autobiografico perché racconta di come è nata questa musica: Kid Creole e la sua ciurma visitano varie isole e sono influenzati dalla cultura e dalla musica di ognuna».

In questa sorta di Odissea tropicale, in cerca di una figura elusiva di nome Mimi, pur senza singoli da classifica la qualità media è alta, e i generi musicali si mischiano anche all’interno della stessa canzone: reggae, salsa, calypso, rhumba, cha-cha-cha, l’haitiano compass, una sorta di tour-crociera fra tutte le isolette caraibiche, e quando si torna nell’isola di Manhattan disco e funk, ma di quello leggero, arioso.

C’è humour, ci sono vignette, citazioni a go-go, persino una in italiano sul ritornello di ‘Animal Crackers’: «…Benvenut-ta la dolce vi-ta mamma mia cheffarò/ tutta quanta ammerica-na, mamma mia che so-gnò!».

Sarei tentato di scegliere questo perché il livello medio forse è più alto, ma il successivo ha quello che a questo manca, ovvero gli hit singles. In “Tropical Gangsters” ce ne stanno almeno tre, la formula è arrivata a perfezione, c’è dietro una super band, tutto curato nei minimi dettagli, dalla copertina agli arrangiamenti, tutti apparentemente omogenei ma in realtà ognuno customizzato sulla storia che racconta. E August/Kid le storie sa inventarle e raccontarle alla grande.

Si comincia con la storia di Annie, la figlia a cui fare la dura rivelazione. «Dicono che tutto sia lecito in guerra e amore, e figliola credici/quando mamma è stata a St.Tropez ha avuto una caduta o due/e te lo dico chiaro, così che tu non debba sentirlo in altra maniera…Oh Annie, non sono il tuo papà…».

Cassa pompata disco, chitarra ritmica funky, trombone che sottolinea, ritornello irresistibile, top 5. Poi ne arriva un altro, “I’m A Wonderful Thing, Baby”, ricordate la storia del bon vivant? «Addio, mi spiace non poter restare, ma ho una dozzina o più di bambine da vedere prima di volare via…Guardami, non potrei sembrare migliore/Forza, dammi la tua benedizione, sei ancora la prima della fila/Sono una cosa meravigliosa, baby…», e snocciola tutta la lista d’attesa femminile.

Il terzo è “Stool Pigeon”, la storia di un informatore della polizia (il “piccione sullo sgabello” in slang è quello che parla), altro funky con battuta in quarta rinforzata, i soliti fiati a fare ritmo e melodia, il coretto «hot cha-cha-cha» a punteggiare il titolo: «Se vuoi cantare, ha detto l’Fbi, possiamo metterci d’accordo, può valerne la pena/Lui ha spifferato tutto, s’è preso una carta di credito e una Thunderbird/ e la massima sicurezza dopo una plastica facciale…».

Un’altra notevole è “No Fish Today”, ritmo più lento, un dialogo fra il pescatore, «Mi spiace signora niente pesce oggi», e la signora che vorrebbe comprare il pescato, ma… «oh signore, sono povera, ho un un figlio e una mamma, due sorelline e un fratello, non essere crudele, non è da te». E lui: «Mi spiace ma’am, sono uscito in mare come sempre, il salmone è arrivato/ ma poi la tempesta, e son tornato/Anche le Autorità son d’accordo, se qualcuno deve mangiare deve essere la upper class, i ricchi…».

Il Kid scrive con arguzia, ritmo, visualizzazioni che ti portano subito dentro la storia, ma è dal vivo che tutto prende un senso più grande. Dal vivo c’è davvero una big band di otto elementi dietro a lui, tre fiati (dietro gli stand) che coprono tutta la varietà (dalla tromba al sax al trombone), percussioni, Coati Mundi fra vibrafono, percussioni e breakdance, e le tre Coconuts tutte vestite uguali, che fanno i cori ma soprattutto dall’inizio alla fine danzano in coreografie precisissime, e quando serve mettono in scena duetti e battibecchi col “capo”.

Dal vivo ‘The Lifeboat Tour”, credo 1983 o ‘84 in uno dei luoghi meno adatti del mondo, il vecchio Palalido di Milano, fu una festa estiva fantastica. Ritmo senza sosta, la disco sostituita totalmente dal funk, competenza musicale assoluta, divertente, ironico, una setlist da sogno, cambi d’abito per le Coconuts, Adriana Cheryl Poirier e Janique Svedberg, belle bionde ma mai volgari né eccessivamente sexy, cambi di Zoot Suit per lui, cappello di paglia in testa e mosse continue a dettare i cambi di ritmo. Una serata di quelle che esci col sorriso a 32 denti, ballando e cantando fino a casa.

Questo erano “Il Ragazzo Creolo e le sue Noci Di Cocco”, a metà degli anni ‘80. Come non infatuarsene totalmente? Qualcosa così non è mai esistita prima, almeno nel mondo variegato del rock, e dubito ne siano arrivate dopo, anche se nulla mi leva dalla testa che Prince (che nel ’90 offre a Kid un singolo, “The Sex Of It”) l’abbia visto e abbia fatto tesoro per quando metterà in scena quelle Soul Revues che erano, dal vivo, album come “Sign O’ The Times” o “Lovesexy” solo pochi anni dopo.

Se vedeste il Live in Paris dell’85 che sto guardando mentre scrivo non dovrei neanche spiegare troppo. C’è un tempo per la musica impegnata, un tempo per la musica complessa, e un tempo per la musica piena di humour e solare, divertente e irresistibilmente ballabile. Quello è il tempo di Kid Creole and The Coconuts.

Carlo Massarini - fonte | Linkiesta

Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più