Quicksilver Messenger Service - Happy Trails (1969)

Mentre in Europa stava nascendo il progressive, nel 1969 nella zona della Baia di San Francisco l’era del rock psichedelico gode del suo momento più alto e creativo. Tra i leggendari gruppi del periodo, quello di oggi è meno famoso rispetto a mostri sacri come i Grateful Dead e i Jefferson Airplane, per una serie di motivi che vi racconterò. I Quicksilver Messenger Service nascono nel 1964: ne fanno parte Dino Valenti (vero nome Chester William Powers) che canta e scrive i testi, John Cipollina, chitarrista che poi diventerà di culto, David Freiberg al basso e Jim Murray (chitarra e voci) con cui per un periodo di tempo suonano Casey Sonobam alla batteria e Alexander Skip Spence come terza chitarra, il quale diventerà poi famoso con i Jefferson Airplane ma soprattutto con i Moby Grape. Vanno avanti così fino al 1965, quando succedono due cose: Valenti è incarcerato per possesso di droga e Spence e Sonobam se ne vanno. Arrivano in gruppo Gary Duncan (chitarra e voce) e Greg Elmore (batteria) che danno così vita al gruppo, che si sceglie un nome perfettamente in tema con il periodo: per quelle casualità divertenti, sono tutti del segno zodiacale della Vergine e dei Gemelli, i quali in astrologia sono governati dal pianeta Mercurio; in Inglese Mercurio è Quicksilver (in riferimento alla sostanza chimica) ma simbolicamente Mercurio è messaggero degli dei, e la Vergine è il servitore da cui Quicksilver Messenger Service. Per un paio di anni per scelta politica rinunciano a registrare e pubblicare materiale discografico, ma diventano un’attrazione dei locali della Bay Area, con 75 concerti solo al leggendario Avalon Ballroom. Murray se ne va, e ottengono notorietà ancora maggiore partecipando alla colonna sonora del film Revolution (del 1968, di Jack O’Connell, ma filmato nel 1967). La Capitol Records propone ai ragazzi un sontuoso primo contratto, e nel 1968 pubblicano Quicksilver Messenger Service. Come spesso accadde all’epoca, la potenza e la creatività dei live veniva “mortificata” e timidamente repressa in studio, tanto che il disco non cattura appieno le capacità dei nostri. Che si rifanno l’anno successivo, nel 1969, con il disco di oggi, uno dei capolavori del rock. Il “trucco” fu di registrare in parte dal vivo due concerti ai mitici teatri Fillmore (l’East a San Francisco e il West a New York) con un lato in studio. Happy Trails ha una copertina western che si ispira a Roy Rodgers e al suo show televisivo, di cui Happy Trails era la sigla, e che qui chiude il disco in una versione senza basso e segnata nel tempo dal piano honky-tonk. Per il resto, il disco è un portento: la facciata A dell’Lp è dominata dalla ripresa di Who Do You Love? di Bo Diddley, che come nei dischi jazz è solo lo spunto per una serie di variazioni, che qui prendono nome di Who Do You Love (Part 1),When You Love (Gary Duncan), Where You Love (Greg Elmore), How You Love (John Cipollina, con intermezzo di show con il pubblico), Which Do You Love (David Freiberg), Who Do You Love (Part 2) per un totale di 25, indimenticabili, minuti e che mostrano la straordinaria tecnica della band e soprattutto degli intrecci tra le due chitarre, quella affilata veloce e fragorosa di Cipollina e quella più morbida e vellutata di Duncan, in un gioco di scambi tra parti ritmiche e soliste favoloso, il tutto giocato, va detto, su una canzone, quella di Diddley, che ha solo due accordi. Il lato b non è da meno: ripreso ancora Diddley con una versione acida e inimitabile di Mona, satura di feedbeck e riverberi, uno strumentale mitico e favoloso, Maiden Of The Cancer Moon, che sfuma in Calvary, altro gioiello leggendario del disco: una sorta di flamenco acido, metaforica salita al Calvario, da atmpsfere cinematografiche, con richiami allo spaghetti western e alle musiche del Maestro Morricone (cimbali, fiati corposi), l’andatura caracollante e pazza, 12 minuti di autentica creatività psichedelica (che nella California dell’epoca significava anche liberare la mente da ogni costrizione psico-fisica attraverso l’utilizzo di sostanze). Come anticipato, il classico di Roy Rodgers e Dale Evans chiude, spiazzando, il disco. Che è entrato di diritto non solo tra i capolavori del periodo, ma dell’intera storia del Rock, uno di quei dischi da riscoprire, emblema di un periodo eccitante per idee, forma e sostanze (in tutti i sensi...).

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