Piero Ciampi, il randagio della musica italiana
Chissà se Piero Ciampi se lo sarebbe mai immaginato, mentre moriva in un letto d’ospedale a soli 46 anni, o mentre beveva sull’ennesimo fallimento discografico, che un giorno sarebbe stato idolatrato o che avrebbero creato un Premio musicale proprio con il suo stesso nome.
Lui che tra i cantautori era quello più bistrattato, lui che i canoni classici del cantautorato li aveva sempre bistrattati per rimanere fedele a se stesso e libero come un randagio.
Ciampi nacque nel ’34 a Livorno, in un’abitazione dirimpetto a quella di un altro famoso livornese, Amedeo Modigliani.
Nel 1957, così come il suo vicino di casa Amedeo, subisce il fascino di Parigi e vi si trasferisce. Lì conosce Céline e per sbarcare il lunario inizia a cantare le parole che scrive, è sempre in quel periodo che intraprende uno stile di vita da bohémien, stile di vita che non abbandonerà mai. Infatti Ciampi, forse è stato l’unico cantautore di quegli anni a vivere davvero l’esistenza che poi cantava.
A Parigi quindi, inizia ad esibirsi sotto lo pseudonimo di Piero Litalianò, così come lo chiamava Cèline, e fu con questo nome, però senza accento finale, che una volta tornato in patria, negli anni ’60 delle belle ugole che cantavano storie d’amore che si presentò al pubblico italiano con il disco Conphiteor/La grotta dell’amore. Sebbene costretto dai discografici a cantare a mò di Mudugno Conphiteor restava comunque un brano inusuale.
L’intro, affidato ad un breve monologo, preannuncia la descrizione dei disagi che si possono celare dietro ogni facciata umana.
Mia madre, quando parla di me,
dice che son un buon figlio.
E i miei fratelli mi chiamano il loro buon fratello.
I miei amici, poi,
dicono di me che sono un buon amico.
Ma essi non sanno……
Che uccido le formiche
e do pedate ai cani
che ho tante tentazioni,
tante! tante! tante!
Conphiteor narra le vicende di un uomo che sfoga i propri fallimenti nell’autolesionismo, e infatti, la canzone prosegue con queste confessioni:
…Che un giorno in una rissa
mi sono arreso a un nano,
che sento il desiderio
di avere tutto! tutto!
Che tengo nel mio pugno
insetti dell’inferno
e sogno dolci ninfe
in lunghi laghi bianchi.
Che gioco sui cavalli
il soldo che mi resta
e tengo nelle tasche
sogni! Strani sogni!
Che giuro ogni mattina
di fare grandi cose
ma quando vien la sera
che ho fatto? Niente! Niente!
Che vedo tanti sguardi
che sento tanti passi
poi chiudo la finestra
e viene strano il buio.
E quando nel mattino
un suono mi risveglia
io volto le mie spalle
e rido! Rido! Rido!
Piero in quegli anni continua a vivere a Milano, dove ormai ha sede la sua casa discografica che successivamente produce altri lavori come L’ultima volta che la vidi/ Quando si leva il vento, Non siamo tutti eroi.
È nel 1963 che arriva il suo album d’esordio; una raccolta di tutti i singoli fino ad allora pubblicati, tra le canzoni troviamo Hai lasciato a casa il tuo sorriso, interpretata successivamente anche dall’amico Gino Paoli.
L’album che ha un’impronta pop orchestrale, classica di quel periodo, ha poco successo di critica e di pubblico. Per gli italiani era troppo francese, per i francesi invece era stato il contrario. Una delle prime a capire le cause dell’insuccesso di Ciampi e la sua poetica fu la giornalista Natalia Aspesi che riguardo a quell’esordiente scrisse:
“Nei suoi versi ci si trova qualcosa di abbastanza poetico per riuscire incomprensibile all’amatore abituale di canzonette”
All’interno del lavoro troviamo comunque brani che mettono in luce quella che sarà la poetica malinconica e ironica del Piero futuro, parliamo di brani come Confesso, Non chiedermi più o La Polvere si alza.
La polvere si alza,
nasconde la tua ombra
e chiude i miei ricordi
in fondo a questa strada.
Col viso tra le mani
come una volta
sono solo con la pioggia
che bagna le mie lacrime.
Un articolo de La Domenica della sera affermò che entro la fine del 1962 quel Piero Litaliano sarebbe diventato popolare quanto Mina. Invece nulla, per trovare facilmente un disco di Piero Ciampi sarebbero dovuti arrivare i primi anni ’90, circa 15 anni dopo la morte prematura dell’artista.
Dopo l’avventura milanese torna a Livorno e per qualche anno dirige una piccola etichetta insieme all’ex dipendente RCA Gaetano Pulvirenti. Tenta di scrivere canzoni pop per altri cantanti dell’etichetta, ma la svolta ancora sembra un’utopia.
Siamo nel 1967 e Piero inizia un periodo nomade, vaga tra la Svizzera, la Spagna, Giappone e Irlanda, in cui diventa padre.
Sono arrivati gli anni settanta e Gino Paoli, amico da ormai un decennio di Ciampi, raccoglie il suo amico ormai nel pieno della sua Odissea alcolica e lo porta di peso negli uffici della RCA presentandolo come un puro sangue nella scrittura di belle canzoni, inoltre, fa da garante affinchè l’amico rispetti il contratto che subito dopo Piero intasca e spende ancora prima di incidere anche un solo brano. L’etichetta depenna il contratto e affida però il cantautore livornese all’ Amico, piccola etichetta fondata da un ex appartenente al Clan Celentano chiamato Mariano, più tardi inizierà a farsi chiamare Don Backy.
Sempre in quel periodo a Piero viene presentato il compositore e arrangiatore Gianni Marchetti. Succede che i due formano un sodalizio prolifico, Marchetti lascia libera la creatività del cantautore, e da questa accoppiata nasce il primo album, pubblicato con il vero nome di Ciampi dall’omonimo titolo Piero Ciampi.
Il disco contiene quelle che il futuro ha decretato classici del cantautore toscano come Sporca estate, L’amore è tutto qui o Il vino.
Piero Ciampi è un album pregno di poesia che trasuda vita vissuta intensamente.
Nonostante oggi questo album sia considerato una pietra miliare del cantautorato italiano quando uscì (1971), esattamente come l’album precedente, passò completamente inosservato.
Quell’anno la RCA iscrisse il cantautore a Un disco per l’estate con L’amore è tutto qui, il concorso si concluse con un ultimo posto. Quell’anno vinse Mino Reitano.
Tra i cultori di Ciampi c’era anche Charles Aznavour che innamoratosi di Tu no lo invitò alla sua trasmissione Senza rete, a cui il cantautore andò, ma all’ultimo minuto decise di non volersi più esibire. Così la storia si concluse con Paolo Villaggio che trascina Ciampi di peso sul palco.
Nonostante tutto, il disco vince il Premio della Critica ma questo non basta per far si che Piero Ciampi si risollevi dagli abissi personali in cui è sempre più immerso.
Nel 1973 esce Io e te abbiamo perso la bussola e sempre sullo stile del precedente disco Ciampi, volontariamente o meno, decide di continuare ad andare in direzione opposta a quella dei canoni cantautorali dell’epoca; solitudine, tristezza e amori che finiscono, questi i temi presenti, “In un palazzo di giustizia” narra una storia d’amore finita in un, appunto, palazzo di giustizia, brano visionario.
Oltre all’alcolismo questo terzo lavoro è stato scritto anche in mezzo ad altri problemi; il divorzio dalla seconda moglie e l’affidamento dei figli. Io e te abbiamo perso la bussola contiene, Io e te, Maria, l’oggi famosa Ha tutte le carte in regola, o Te lo faccio vedere chi sono io, il protagonista attraverso un monologo, a fare da sottofondo una melodia tesa, si rivolge con toni ironici alla sua donna che sognerebbe una vita borghese.
Intanto riesce a ottenere ingaggi, ma per via degli stati di ebbrezza la maggior parte delle serate si concludono in insulti e risse con il pubblico o con proprietari dei locali.
Una delle caratteristiche di Piero Ciampi era sparire e far perdere completamente le tracce di sé, e fu proprio in uno di quei periodi che Ornella Vanoni contatta il produttore del livornese perchè rapita dal suo talento, vorrebbe incidere un album con le sue canzoni, ma niente, l’affare sfuma e quando Ciampi torna a farsi vivo incide per la RCA Andare, camminare, lavorare, una raccolta di brani già editi con l’aggiunta di Andare, camminare, lavorare e Cristo fra i chitarristi.
È nel 1976 che viene registrata la trasmissione Piero Ciampi, no! mandata in onda su Rai Tre nel 1978, due anni prima che morisse.
Ed è proprio in quell’occasione che Piero si presenta vestito in tonalità scure, e nella penombra quella figura snella per presentare Che buffa che sei dice:
“Per sapere cos’è la solitudine bisogna essere stati in due.”
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