Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways (2020)

di Antonio Sebastianelli

“I’m a man of contradictions / I’m a man of many moods / I Contain Multitudes” Bob Dylan

Un uomo grande come una montagna giace a terra, soffocando sotto le ginocchia di un poliziotto. Lancia un’ultima invocazione disperata prima di rimettere l’anima a nostro Signore: mama. Un virus malevolo paralizza il mondo per mesi, costringendoci a rivedere le nostre abitudini e priorità. Nello stesso momento, un vecchio bluesmen e poeta fa risentire la sua voce, utilizzando il passato come filtro per comprendere un presente terrificante che sembra quasi germinato da uno dei brani. Il primo disco autografo dopo otto anni.

Poco sembra mutato in questi anni e il nostro naviga sereno sul vecchio sughero di una musica che ormai non si muove più, non avanza ne retrocede; resta sospesa come fosse scolpita nell’aria, in un tempo che appartiene solo al suo autore. Titanica e inamovibile. Mitica e sottile come sabbia pronta a scivolarti tra le dita. Nonostante l’età, i presagi di morte o di una fine imminente non sono poi così numerosi. D’altronde come Rimbaud come Whitman prima di lui; nel momento in cui Zimmerman ha voluto essere Dylan, è diventato tutti: l’America e la sua storia sanguinosa, i suoi poeti, i suoi soldati, le innumerevoli vittime rimaste schiacciate sotto la mostruosa macchina del suo Sogno. Musicalmente si respira un’aria serena, come se le rivisitazioni del repertorio di Frank Sinatra degli ultimi anni avessero lasciato il segno. Solo tre sono i brani uptempo, da segnalare in particolare Goodbye Jimmy Reed che pare quasi riportare in vita certe atmosfere blues di Blonde on Blonde anche se in una veste decisamente più canonica.

I Contain Multitudes il brano di apertura, si muove su placide trame acustiche citando appunto Whitman. Parlando di sé Dylan racconta un’intera nazione, una repubblica invisibile, un coro di voci dimenticate, quelle dei cantori morti, eppure tremendamente vivi che si agitano nelle profondità del suo spirito ed emergono improvvisamente. Come nell’inquietante ballata di My Own Version Of You degna di Poe. Il protagonista racconta: “Dall’estate a gennaio ho visitato obitori e monasteri in cerca di parti di corpi necessari, arti, fegati, cervelli e cuori…“. Il piglio da crooner azzimato di I’ve Made Up My Mind To Give Myself to you, valzer al chiaro di luna, ci conduce agli anfratti misteriosi di quella perla oscura che risponde al nome di Black Rider. La poesia di Dylan altrove ermetica e oscura qui si distende in frasi di brillantezza cristallina: “Cavaliere nero hai visto tutto/ Hai visto il grande mondo e hai visto il piccolo/ Sei caduto nel fuoco e stai mangiando la sua fiamma/ meglio sigillare le labbra se vuoi rimanere in gioco (…) /lascia che i tuoi pensieri terreni siano una preghiera”. Altrove, tra dolci arpeggi incantati invoca Calliope, la madre delle muse; le chiede di cantargli delle montagne, delle foreste, del vasto e oscuro mare, delle ninfe della foresta e di renderlo “…invisibile come il vento…”. Qui il menestrello di Duluth diventa poeta delle origini, come Keats tutt’uno con l’usignolo di cui cantava. Vive su quel confine sottile che divide sogno e realtà, percezione ed Epifania e contro cui vanno a frangersi come menadi impazzite, i mille flutti poetici che lo hanno formato; in quella vertigine, il riflesso del mondo.

Infine si giunge a Key West (“Key West is the place to be
‪If you’re looking for immortality”). Oasi di bellezza melodica, semplicemente una canzone immensa. Come se il Dylan maturo di Oh Mercy rivisitasse un pezzo dei Basement Tapes. Cantata con un filo di voce e commossa come mai. C’è pace in mezzo al dolore e serena accettazione, come se una luce illuminasse il sentiero da seguire e il viaggio da intraprendere non fosse quello della fine, ma di un nuovo inizio dove splende ancora forte la luce della verità.

Murder Most Foul è il salto finale, compiuto con grazia selvaggia alla Huckleberry Finn. Diciassette minuti, tra archi sussurranti e tasti accarezzati. Dylan parte da uno degli eventi che hanno scosso di più la coscienza del suo paese; l’omicidio Kennedy, per poi deviare verso mille vie. Tra citazioni alte e basse, fantasmi che compaiono per un attimo per poi sparire, come una sorta di rivisitazione della lontana parata di Desolation Row. Invocazioni: “Qual’ è la verità? Dov’ è finita?”. Preghiere: “Libertà, oh libertà, libertà per me”. Fino alla sibillina frase: “Sto viaggiando su una lunga limousine Lincoln nera/ Sul sedile di dietro accanto a mia moglie/ Sto andando dritto verso l’Aldilà (…) ho la testa sul suo grembo”. Chi è a parlare? Kennedy o Dylan? Chiunque sia chiede a Wolfman Jack, storico Disc Jockey americano, di suonargli una serie di pezzi e la richiesta diviene un fiume in piena, carico di ricordi, di eroi che hanno informato la giovinezza di Dylan, di artisti amati o forse ascoltati una volta sola. Tra un momento e l’altro della vita; miracolosamente sottratti all’oblio della memoria. È l’ultima magia del disco, la conclusione del viaggio.

“Le nostre feste sceniche sono finite. Questi nostri attori, erano tutti solamente spiriti, e si sono dissolti nell’aria. Nell’aria sottile.”
(William Shakespeare – La Tempesta)


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