Pearl Jam - Ten (1991)

Il grunge è spesso considerato come l’ultimo grande movimento “stlistico” della musica rock americana prima dell’esplosione del rap come stile dominante. In effetti se è vero che le band di Seattle (il grunge è anche conosciuto come Seattle sound) furono il fulcro di questo genere, è piuttosto difficile trovare caratteristiche comuni tra i gruppi che comunemente definiamo grunge. Se i Nirvana giocavano sulla psichedelia e sulla reinvenzione in chiave anche sarcastica del blues ( Cobain cantava tra le altre cose piuttosto scioccanti “rape me, my friend”), gli Alice in Chains viravano su una rielaborazione dell’heavy metal, i Pearl Jam sono quelli che nel suono si rifanno al grande rock degli anni 60-70, con particolare predizione per gli Who e i Led Zeppelin. I Pearl Jam nascono quando Jeff Ament e Stone Gossard escono dai Mother Love Bone, scioltisi dopo la morte per overdose del cantante Andy Wood, il primo eroe musicale dell’underground di Seattle. I due reclutano il chitarrista degli Shadow, Mike McCready, il batterista Dave Krusen e tramite l’ex batterista dei Red Hot Chili Peppers, Jack Irons, un benzinaio surfista di San Diego, Eddie Vedder. Vedder sentì delle demo che i 4 avevano registrato, scrisse i testi e re-incise le parti cantate: il demo che fu spedito a Gossard e Ament scatenò la curiosità dei due che pagarono il biglietto aereo a Vedder per Seattle, e fu subito reclutato. Il primo nome del gruppo fu Mookie Blaylock, dal nome del forte playmaker dei New Jersey Nets dell’epoca. Con questa formazione, il gruppo aveva partecipato al sensazionale Temple Of The Dog, omaggio struggente e musicalmente emozionante a Andy Wood, a cui parteciparono anche Chris Cornell e Matt Cameron dei Soundgarden. Nel 1991 insieme a Rick Parashar e ad un contratto con la Epic Records, iniziano le registrazione ai London Bridge Studios. L’unica cosa che la Epic chiede è di cambiare nome alla band: Vedder racconta della marmellata di peyote che sua nonna Pearl, di origini indiane, era solita fare, e nascono così i Pearl Jam. Però un ultimo omaggio a Blaylock lo fanno: il dieci infatti era il numero di maglia del giocatore, e Ten diventerà uno dei più grandi dischi d’esordio di tutti i tempi. Il rock è duro e spettacolare, ma quello che trova sintonia e cattura l’immaginario di una intera generazione è la malinconia e la rabbia dei testi di Vedder, capace di descrivere in maniera vivida e precisa un’instabilità emozionale, l’emarginazione, i mancati rapporti con la famiglia e gli adulti, spesso usando storia e immagini della sua vita privata. Preceduto da Alive, immensa ballata che parla di un rapporto morboso e difficile tra padre naturale-padre adottivo e madre-figlio (e Vedder, figlio adottato, scriverà bellissimi pezzi sull’argomento), Ten schizza in vetta alle classifiche, venderà più di dieci milioni di copie e diviene con Nevermind l’album simbolo di un’intera stagione musicale e culturale. Once è altrettanto drammatica, parlando di un uomo che impazzisce e diventa un serial killer, Even Flow, che parla di giovani che non hanno una casa, diviene il manifesto di una generazione che partiva senza meta e dormiva sotto i ponti. Il disco procede tra i riff potenti di McCready, che diventerà uno dei più grandi chitarristi della sua generazione, il pilastro ritmico del basso di Ament, la seconda chitarra di Goddard e la voce di Vedder, un marchio di fabbrica. Il quale non ha timori a scrivere di violenza, con la storica Jeremy, che racconta la storia vera di un liceale che si uccide a scuola davanti ai suoi compagni, eppure si scioglie in una dedica alla sua tavola di surf in Oceans. Due bravi diventano iconici: Release, che ha l’epicità dei grandi gruppi rock, è un’emozionante brano che parla di liberarsi dai legami opprimenti; ma il vero capolavoro è Black, intensa ballad su un’amore finito e spezzato, che “tatua tutto di nero” e che contiene uno dei versi più belli su un amore finito: I know someday you’ll have a beautiful life/ I know you’ll be a star in somebody else’s sky, but why/ Why, why can’t it be, oh can’t it be mine?. Il mix tra vecchio e nuovo, quella particolare abilità a descrivere i sentimenti di quella generazione che iniziò a vestirsi di jeans strappati, magliette larghissime, a farsi crescere i capelli lunghi e a indossare Doc Martens con le immancabili camicie di flanella a quadrettoni dei lumberjack divenne il trampolino per il successo, insieme alle clamorose esibizioni dal vivo: rimangono uno degli ultimi grandi gruppi a tenere accesa la fiamma del rock (e si capisce che sono uno dei miei gruppi del cuore).

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