Moby Grape - Moby Grape (1967)

In questi giorni cade il 50° anniversario di Woodstock: benchè svoltasi sulla costa orientale, quella manifestazione fu l’apoteosi della cultura californiana, che passava necessariamente dalla musica. Proprio ad una delle band californiane più leggendarie ma colpevolmente dimenticate (gli americani usano la bella parola underrated) dedico la storia di oggi. Alexander “Skip” Spence è un canadese che agli inizi degli anni ‘60 arriva in California, a San Josè. È un polistrumentista ma ama in particolare suonare la batteria. E come batterista entra nella prima formazione di una delle band simbolo degli anni ‘60 americani, i Jefferson Airplane. Con loro resta giusto il tempo di Jefferson Airplane Takes Off, dove sigla la bella Don’t Slip Away, poi se ne va insieme a Matthew Kantz, che all’epoca era il manager della band, a fine 1966. In mente hanno il suono magico e corposo dei Buffalo Springfield, unici per le loro tre chitarre (per la cronaca di Neil Young, Stephen Stills e Richie Furay) e per questo chiamano, anche grazie all’interessamento di Jerry Garcia (il leggendario leader chitarrista dei Grateful Dead), Jerry Miller, Peter Lewis, Don Stevenson e Bob Mosley. Stevenson suona la batteria, così Spence con Lewis (abile nel fingerpicking) e Miller (che era decisamente più solista) formavano il trio di chitarre, con Mosley al basso, Altra particolarità, tutti e 5 contribuivano al canto, in un mix favoloso di cori tipicamente californiani (con echi di Beach Boys e Byrds) e intrecci di chitarra quasi a dialogare tra loro, che con nome evocativo definirono cross-talking. Non restava che scegliersi un nome, e Mosley prese in prestito la risposta a questo indovinello: What’s big and purple and lives in the ocean? a Moby Grape. Nel Marzo 1967 entrano negli studi della CBS a Los Angeles per il loro primo album con la Columbia: Moby Grape uscirà nel maggio 1967 prodotto da David Rubinson, grande produttore e ingegnere del suono che diventerà famoso per aver prodotto le musiche di Apocalypse Now. Cinque cantautori non potevano che scrivere belle canzoni, in un disco che è il perfetto quadro della Summer Of Love e del rock psichedelico che stava nascendo, eccentrico, elusivo e particolare. Hey Grandma è il biglietto da visita, un ruggente e graffiante rock blues, che diventerà un classico (uno dei brani preferiti di Robert Plant, che ne farà splendide cover), poi Mr. Blues è quasi soul e Fall On You è jingle Jangle che sarebbe piaciuto a George Harrison. Il mix di stile e suoni è favoloso, e la varietà di qualità sbalorditiva: 8:05 è un delicato e romantico brano acustico, Ain’t No Use è country&western, due brani, Lazy e Changes, sono gli embrioni del rock lisergico che esploderà di lì a pochi mesi, c’e anche il tempo per due ballate morbide e malinconiche, Someday e Sitting By The Window. Se ne volete ancora, ecco il gioiello: Spence scrive il suo primo capolavoro nella stupenda Omaha, una solare e trascinante ballata psichedelica, dal leggendario intro, che sembra la scritta con il sole della California sul pentagramma. Se tutto sembra grandioso, persino la critica è innamorata di questo nuovo esperimento, il delicato meccanismo del gruppo è fragilissmo: già il secondo disco Wow\Grape Jam, uscito in doppio Lp per aggiunte di esibizioni live, è più discontinuo, anche se ha capolavori geniali in Can’t Be So Sad, Motorcycle Irene, nella stupenda Funky-Tunk (che riproduce perfettamente un disco a 78 giri). Spence ha gravissimi problemi di salute, si ricovera in un istituto di degenza psichiatrica, mentre il resto della band nel 1969 fa uscire Moby Grape ‘69, con il grappolo d’uva disegnato in copertina, che è più dignitoso. Spence una volta “guarito” andrà da solo a Nashville dove registrerà Oar, uno dei dischi culto di quel periodo, tutto suonato e registrato come one man band, dove sonda la musica di frontiera, i suoi problemi psichici, il rock acido esploso appieno. I 5 originali si ritrovano nel 1971, e le attese su 20 Granite Creek sono altissime, ma vengono deluse da un disco non riuscito. Finisce qui il primo pezzo di storia di uno dei più grandi gruppi americani degli anni ‘60, sebbene la band continui ancora oggi a suonare, dopo una carriera quasi 50ennale, con ripetuti cambi di formazione e estemporanee reunion. Ma non riuscirà mai a catturare il momento come in questo disco, una delle pietre più scintillanti di un anno, il 1967, che è stato il vero ‘68 del rock (ne scriverò presto).

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