David Bowie - “Heroes” (1977)
Quando uscì nel 1976 Station To Station, la sua “maschera” del tempo era quella del Sottile Duca Bianco: nell’ultima delle sue infinite trasformazione si dichiarava fan di Nietzsche, auspicava un Hitler inglese e salutava i fan con il braccio teso. Anni dopo David Bowie dichiarerà: “Ero strafatto tutti i giorni, fu un periodo in cui non capivo più niente”. Addirittura si allontanò dalla musica per l’interpretazione da protagonista de L’uomo che cadde sulla terra, che non fu il successo sperato al botteghino. Tossico, disperato e confuso, con i suoi amici Iggy Pop e Tony Visconti parte per Berlino, un posto dove “la gente aveva molte cose più interessanti da fare che seguire un cantante”. Ci sono altri due artefici al leggendario periodo berlinese: Brian Eno, i cui esperimenti ambient affascinarono sin da subito Bowie; il genio e la chitarra di Rober Fripp, leader dei King Crimson, sperimentatore, creativo di rivoluzioni musicali. Gli anni passati a Berlino “produssero” tre dischi, Low (1977), Lodger (1979) ma soprattutto il disco di oggi “Heroes” (1977) che non solo è uno dei capolavori di Bowie della sua quarantennale carriera ma uno dei dischi più significativi della musica rock. Per me, come molti critici, va inserita come parte integrante del periodo berlinese anche The Idiot (1977) di Iggy Pop, prodotto da Bowie che lo confeziona a sua immagine e somiglianza e firma insieme a Iggy tutti i brani (tra cui alcuni storici come No Fun, Fun House, Fun Time e la storica China Girl che Bowie riprenderà con ancora più successo negli anni ‘80). “Heroes” è, come fulcro della trilogia (o tetralogia, per le cose appena scritte) una risposta al furore iconoclasta e devastante del punk. Bowie ritrovata la calma, l’ispirazione e lontano dagli eccessi con rinnovata serenità si immerge nella musica elettronica, che proprio in Germania aveva la sua patria di elezione, nella sua idea di perfezione tecnica e sonora. L’unico disco effettivamente registrato a Berlino, ai famosi Hansa Studios, che dopo la pubblicazione dell’album divennero meta di pellegrinaggi musicali, è un disco che accenna ad una dimensione più ottimista sul futuro e sulla questione umana. Per registrarlo, soprattutto le basi ritmiche, spesso bastò una sola esecuzione, seguendo i dettami delle “Strategie Oblique”, un metodo di potenziamento delle facoltà creative ideato da Eno con l’artista Peter Schmidt, che consisteva in un mazzo di 100 carte contenenti direttive vincolanti su come superare blocchi creativi e su come dare nuove forme, in questo caso, alle canzoni. Ne fu coinvolto lo stesso Fripp, che in un solo giorno, solo con la sua leggendaria Les Paul e un amplificatore Marshall registrò le sue parti, impregnate di feedback e di mito. Il disco si può dividere in tre parti: quella dove Bowie sperimenta il suo approccio avanguardista alla sua musica, in brani storici come The Beauty And The Beast, Joe The Lion, Sons Of The Silent Age; un’altra parte dove è più sentita la presenza di Eno, negli strumentali Moss Garden, dove Bowie suona un antico koto giapponese (un particolare strumento a corda della tradizione antica giapponese), in Neuköln (che è un omaggio ad un quartiere di Berlino, che però nella grafia corretta ha due “L”) Bowie suona un assolo di sax niente male, The Secret Life Of Arabia potrebbe davvero apparire nei dischi ambient di Eno. Tra omaggi a Florian Schneider,, co-fondatore del gruppo musicale Kraftwerk, in V2-Schneider (con annesso ricordo dei V2, i missili tedeschi della II Guerra Mondiale), uno dei brani più oscuri e decadenti della carriera del Duca, Sense Of Doubt, spicca, su tutte, una delle canzoni più belle e, all’epoca, audaci, della musica. “Heroes” fu ispirata a Bowie dal vedere dalle finestre degli Hansa Studios, ex caserma della Gestapo e situata proprio a pochi metri dal confine dal Muro, un uomo e una donna che si baciavano “by the wall”: quei due erano Tony Visconti, il suo produttore, e Antonia Mass, corista e amante di Visconti, che all’epoca era sposato con Mary Hopkins: su un muro quasi spectoriano di chitarre (con i riverberi e i feed back di Fripp) si alza una delle sue prove canore definitive, quasi drammatica per la sua epicità, e quel testo, quel “we could be heroes just for one day” segnerà tutte le generazioni a venire. Sia il brano che il titolo dell’album hanno le virgolette in tono ironico, quasi a spezzare la tensione del brano e dello stesso disco. Non posso dimenticare la spettacolare copertina: il fotografo giapponese Masayoshi Sukita, che seguirà Bowie per tutta la sua vita artistica, si ispirò ai lavori dell'artista tedesco Erich Heckel, in particolare all'opera Roquairol: la stessa idea fu usata anche per la copertina dell'album The Idiot di Iggy Pop. Le mani di Bowie, ritratto per una volta senza lustrini nè trucchi, sembrano quasi mimare il movimento di togliersi una maschera, per mostrare la sua vera natura: tra l’altro la foto in bianco in nero amplificò la suggestione della sua anisocoria, perchè Bowie non aveva gli occhi di colore diverso, ma solo le pupille di dimensioni diverse: giovanissimo ha partecipato ad una contesa per una ragazza, durante la rissa che ne è derivata George Underwood, che suonava con lui nel suo primo gruppo, gli avrebbe assestato un pugno (secondo altre versioni gli punse l’occhio con un compasso) capace di causargli questa differenza di diametro delle pupille. L’ennesima particolarità di un genio della musica, dello stile, dell’immaginazione, che ci manca tanto.
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