Miles Davis - Kind Of Blue (1959)

Per la centesima (però!) Storia di Musica, ho scelto quello che unanimemente è considerato IL disco jazz. Un disco che nelle sue 6 tracce compie una rivoluzione, l’ennesima del suo autore, che nella vita non ha mai avuto paura di provare a cambiare le regole del gioco. Miles Davis, il geniale trombettista figura centrale della cultura del ‘900, a capo di un dream team del jazz composto da Julian “Cannonball” Adderley (sax contralto), John Coltrane (sax tenore), James “Jimmy” Cobb (batteria), Paul Chambers (contrabbasso), Bill Evans (pianoforte) e Wynton Kelly (pianoforte in un solo brano) mette in musica nei 6 brani in scaletta, il jazz modale. Nato come risposta alla frenesia e alla tecnica quasi brutale del be-bop e l’hard bop, i principi del modal jazz furono descritti in un saggio da George Russell. Il principio guida era di svincolare la progressione degli accordi dalla tonalità del brano e associare ad ogni accordo differenti scale “modali”, ciascuna con una sua tonica, dalle molteplici e differenti sfumature, sempre in maniera indipendente e svincolata dalla tonalità: con l’applicazione del metodo scalare le armonizzazioni e le costruzioni di accordi possono muovere su tutta l'estensione di una data scala, potendo impiegare potenzialmente qualsiasi nota (le scale di Russell sono 7, e si distinguono dalla più chiara alla più scura come: Lidia, Ionica, Misolidia, Dorica, Eolia, Frigia e Locria). La grande differenza rispetto al jazz precedente è che non è più necessaria la simbiosi tra armonia e melodia. Davis con Bill Evans avevano fatto già le prove generali nel 1958 in quel primo capolavoro che fu Milestones. Ma qui, secondo le note di copertina che lo stesso Evans redasse (un genio assoluto anche nel raccontare), il disegno del Signore delle tenebre (nomignolo di Davis, per la sua scontrosità in pubblico) era molto più intrigante. Le registrazioni di Kind Of Blue (omaggio ironico al blues presente nel brani ma anche al nuovo “tipo” che stava ribollendo in pentola) furono effettuate in soli due giorni il 2 Marzo e il 22 Aprile 1959 negli studi della Columbia Records sulla 30.ma strada a New York. Davis si presentò ai musicisti con degli spartiti di linee melodiche, parlò ai musicisti delle idee di base di ogni pezzo, e senza nessuna prova iniziarono le registrazioni, sotto le cure di un altro gigante, Teo Macero, il fido produttore e ingegnere del suono di Davis. Qui nasce una leggenda: per anni si pensò che tutte le registrazioni dei sei brani furono first take recorded, cioè fatte solo una volta. In realtà per ogni brano ne occorsero due o tre. Resta il fatto che il disco è diventato la pietra angolare del jazz anche per l’eccezionale sintonia che il sestetto acquisì in così poco tempo. I 6 brani del disco sono tutti standard del jazz, e vantano messi insieme oltre 1000 tra cover, versioni per orchestra, cantate e riprese in centinaia di dischi. So What è probabilmente il più famoso brano di Davis: dolcissimo, con il famoso voicing introdotto da Evans (e che nella musicologia contemporanea vengono definiti So what voicing, tanto per capire quanto diventeranno iconici) esprime perfettamente la nuova idea di jazz del gruppo: lunghe sequenze di accordi, un assolo dove non cambia nessun accordo in 24 battute (tanto amato da Coltrane che lo riprenderà in Impressions). Freddie Freeloader è un classico blues e ha in sequenza 5 assoli di pianoforte (suonato in questo caso da Kelly), tromba (Davis), Coltrane e Adderley (i due sax) e Chambers (contrabbasso) e l’ennesima leggenda vuole che lo scroccone (Freeloader) fosse Fred Tolbert, un amico barista di Miles Davis. Blue in Green è l’apoteosi di Davis e Coltrane, brano magico, spettacolare che ridisegna lo spazio musicale. All Blues è ancora blues (e ora si capisce da cosa prese il titolo del disco Davis) ma nei nei suoi oltre 11 minuti si trasforma in blues modale, primo esempio della storia della musica. Si finisce con un altro brano leggenda: Flamenco Sketches. Scritta senza melodia, il gruppo usa 5 differenti scale modale per improvvisare con una manciata di accordi come base sonora. La fama del disco all’epoca fu un po’ oscurata perchè pochi mesi dopo Ornette Coleman con The Shape Of Jazz To Come apriva la strada del free-jazz, facendo infuriare Davis, non nuovo ad arrabbiature per mancanza di attenzione nei suoi confronti. Tuttavia con il passare degli anni, Kind Of Blue è diventato non solo tra i dischi più venduti di tutti i tempi in ambito jazz, ma uno dei momenti musicali più importanti dell'intera cultura del ‘900. Jimmi Comb dopo trent’anni disse una cosa che spiega bene cosa fecero i nostri: “This Record Must Have Been In Heaven”. Non impauritevi dei tecnicismi e che sia solo musica “suonata” (sebbene moltissimi abbiano poi dato testi a queste musiche) e lasciatevi trasportare dal suono elegante, puro e dolcissimo di questo disco: anche chi non ha mai ascoltato un disco jazz ne resterà rapito, ci scommetto un caffè.

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