Mark Lanegan – Straight Songs Of Sorrow (2020)

di Fabio Marco Ferragatta

Un uomo prende una decisione: scriverà della sua vita. Un uomo si siede alla scrivania, accende il computer e comincia a riempire fogli su fogli di quello che ha visto, che ha vissuto, che gli altri hanno visto di lui. Espettora tutto il tormento, l’orrore che ha vissuto, le salite e le discese agli inferi. Finisce e resta immobile a guardare lo schermo che pulsa. Sente che non ha finito, che c’è dell’altro rimasto incastrato nelle corde che compongono il suo corpo provato. Non c’è stata catarsi, si dice, solo miseria, chiosa. È ora di tornare in studio, perché solo lì potrà finalmente mettere un punto al racconto.

Quell’uomo è Mark Lanegan, e quell’uomo si porta dietro tanti demoni, che non se ne vogliono andare, nemmeno a distanza di tanti anni. Quell’uomo, dopo tanti dischi con una band vuole fare da solo, ma così come i suoi demoni non lo abbandonano mai, così nemmeno in studio può rinchiudersi a riccio, lascia entrare spiragli di luce, bagliori amici che si posano vicino a lui e lo accompagnano, perché quel punto va messo, per forza.

Quel punto è “Straight Songs Of Sorrow” e sta tutto in quel titolo. Quel titolo che sanguina polvere e storie, non ancora raccontate, nemmeno in quel libro che Mark Lanegan ha scritto prima di capire che la disperazione è ancora sua compagna, dopo tutti questi anni. Tutto questo tempo. Il tempo, esso si dilata e si adagia e si cristallizza in quindici brani, che oggi sono tanti, troppi, per l’attenzione degli ascoltatori. Nessuno ha tempo. Ancora Lui. Ancora in debito d’ossigeno. Ancora vivo.

Abbiamo imparato a conoscere ed amare la voce sofferta di Lanegan, così umana e calda, ma mai, negli ultimi anni, l’ex-Screaming Tree è riuscito a rivolgere preghiere così accorate al cielo in strali strazianti, come su Churchbell, Ghosts (“Lord don’t you hear me crying/Lord don’t you hear me saying goodbye”), le luci qui sono Ed Harcourt e Jack Bates (figlio della leggenda Peter Hook), col piano del primo a dire messa e il basso del secondo donare tensione. Abbiamo imparato a conoscere l’amore sensuale di certe composizioni di Mark, ma così raramente riconosciamo invece l’Amore per quel che è, una richiesta d’aiuto, un tendersi le mani che si toccano morbide nella condivisione (“Free my soul of emptiness/I know the taste of sorrow”), e le mani sono quelle di Lanegan e di sua moglie Shelley Brien, la donna che non lo sta lasciando, dalla voce “antica”, calda, che rende la sua fredda in un intreccio incredibilmente accorato.

Abbiamo imparato a soffrire con Mark quando l’aria si faceva rarefatta e si riempiva del fumo azzurro delle sigarette, dando vita al blues, quello accorato di Stockholm City Blues, che innalza vortici di chitarra secchi ad archi che mulinano nel vento nella consapevolezza del proprio operato, del proprio indistinto dolore (“I pay for this pain, I put into my blood”), ma anche sentirlo elettrificarsi mentre Lanegan cade in ginocchio mentre Skeleton Key s’innalza, dinnanzi allo specchio, lavando via tutto lo schifo senza pregare nessuno (“I’m ugly inside and out there is no denying”), che sembra di sentirlo duettare all’unisono col Cash più seminale, incarnato in un rituale pagano. Rimproverandosi di tutto in un nuovo battesimo agnostico (la sua “redemption song”, dice la moglie). L’universo si espande sugli ambienti cosmici apportati da Adrian Utley dei Portishead, coi cori a stirarsi sulle chitarre taglienti e il mandolino. Allucinazioni elettrificate portate dalla mano di un Dio antico come John Paul Jones si fanno strada ancora nel blues, ma questa volta più grunge di quanto Mark non sia mai stato, così, ecco Ballad Of A Dying Rover, come una lama calda sul cuore (“I’m a just a man/Just a sick, sick man”).

E poi? Poi ci sono gli amici, quelli che non ci sono più come Genesis P-Orridge che sul letto d’ospedale (sul suo letto di morte) e in presenza di Wesley Eisold dei Cold Cave non chiede assoluzione al prete, bensì la ketamina, e Ketamine si fa pulsazione digitale che va spegnendosi, Eisold è cassa di risonanza di Mark, tutto è strano, tutto è finito. Ci sono quelli ancora in mezzo a noi, forse per un soffio, e Lanegan col cuore in mano guarda negli occhi chiari di Dylan Carlson e gli dedica la delicata Hanging On (For DRC) (“A thousand ways we could’ve died”, ma l’ora non è arrivata) impreziosita dalla chitarra di Mark Morton – proprio quello dei Lamb Of God. E, infine, quelli di sempre, che col cazzo che se ne vanno: appare in scena Greg Dulli e quando c’è lui la temperatura si alza, complice il violino di Warren Ellis. Riecco i Gutter Twins che fanno tremare At Zero Below ed è qui che l’Amore romantico di cui sopra va a farsi benedire (“In this dream I can’t forget/I burn my love with a cigarette”) e si perde lontano, dove nessuno può più recuperarlo. Nessuno.

Sapete quei dischi così grezzi da sembrare intagliati nella pietra a sgraziati colpi di scalpello? Quei dischi che non possono essere belli (“Somebody’s Knocking” e “Gargoyle” erano belli), ma solo necessari? Ecco cosa ascolterete. Fatevene una ragione. Quell’uomo, il suo libro e il suo disco avevano un bisogno preciso. Il cerchio si chiude, arriva la catarsi e i viaggi, i ricordi sono liberi di andarsene per la loro strada.

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