CSI - Tabula Rasa Elettrificata (1997)
Era un pomeriggio di settembre, anno 1997. Ricordo benissimo il luogo: a Firenze, al semaforo tra via Doni e via Redi. Mentre aspettavo che scattasse il verde, l’autoradio faceva il suo dovere, sintonizzata sulla mia stazione di fiducia. Intanto, come spesso mi capitava all’epoca (oggi anche di più), ero perso in qualche strano pensiero. È per questo motivo che di quella canzone non sentii il lancio dello speaker. Dagli altoparlanti iniziò a uscire una roba travolgente: rotolava sul basso accanito, s’avvitava su quelle due chitarre isteriche, preda di una specie di wah wah androide l’una, l’altra invece tutta cartigli striduli e svolazzi spezzettati. L’impasto suonava poderoso e isterico come una sirena antiarea: sembrava, come dire, intenzionato a scavare un tunnel nella narcosi afosa di quel primo pomeriggio cittadino, e in grado di riuscirci. Poi arrivò il canto, un coro o una voce sovraincisa (non capivo), le strofe come un assedio in forma di filastrocche sloganistiche, il piglio tra il marziale e l’afasico che nel ritornello piegava verso una litania aggressiva, a tratti ironica, rabbiosa ma con una certa solennità: “Voglio ciò che mi spetta, lo voglio perché è mio mi aspetta”. Quella voce, mi sembrava di riconoscerla, ma non riuscivo a mettere a fuoco. Pensai: “E questi chi cazzo sono?” Scattò il verde e ripresi a mescolarmi nel traffico esausto di quella fine estate di quasi fine secolo, rapito, come in apnea. Quando la canzone finì, lo speaker ribadì il titolo e il nome della band. Quasi non riuscivo a crederci. Nei sei travolgenti minuti di Forma e sostanza i C.S.I. avevano messo il cappello su tutto il rock “alternativo” italiano dei Novanta, di cui reclamavano l’impeto, le ambizioni, insomma una sorta di paternità, collocandolo a un livello e in una dimensione pressoché inediti.
Forse non è giusto considerare Tabula Rasa Elettrificata – come ebbe poi a dichiarare Ferretti – “l’unico disco rock” nella loro storia, CCCP compresi, ma proprio questa elettrificazione sistematica e l’attitudine impetuosa sono i motivi che mi sorpresero quel giorno, una sorpresa che si rinnova – mutando forma e, appunto, sostanza – ancora oggi, dopo oltre vent’anni. Così come mi sorprende ripensare all’impresa – clamorosa – che quel disco riuscì a compiere: guadagnare il primo posto nelle classifiche di vendita, scalzando dal trono nientemeno che Be Here Now degli Oasis (quest’ultimo prodotto ruffianissimo ma – è il caso di sottolineare – pur sempre di impostazione rock, e insomma che dire: quelli erano giorni). In ogni caso, si trattò di un’operazione di guerriglia, aggressione (ottantamila copie piazzate nella prima settimana) e fuga immediata: i C.S.I. scomparvero presto dalle posizioni di vertice delle chart, evitando a molte redazioni popular (anche radiofoniche e televisive) di cimentarsi in argomentazioni poco opportune. Tutto insomma tornò presto alla normalità. Ma qualcosa di irreversibile si era consumato.
Il titolo Tabula Rasa Elettrificata obbediva curiosamente all’amore per gli acronimi della band emiliana, trattandosi del terzo album (T.R.E.) del Consorzio Suonatori Indipendenti. È l’unico aspetto, come dire, civettuolo di un lavoro all’insegna di una gravità stordente, anche nei suoi pochi (e ipotetici) momenti ironici. Non poteva essere che così: se i due lavori precedenti targati C.S.I. nascevano come riflessione profonda sulla cultura occidentale (anzi: sull’essenza stessa dell’Occidente) dopo che il cuore stesso della civiltà si era dimostrato fragile anzi crudele nonché intimamente malato alla luce (cupa) dei conflitti balcanici, questo disco nacque come frutto di una presa di distanza, di un processo di estraneazione che produsse nella band un punto di vista – è il caso di dire – “altro”. Il viaggio lungo la Transiberiana di Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti – da cui furono tratti anche un libro (In Mongolia in retromarcia), un docufilm (Sul 45° parallelo, regia di Davide Ferrario) e una trasmissione/reportage sulla Rai – permise ai due leader/fondatori di proseguire la loro opera di analisi per sottrazione, eliminando cioè dall’obiettivo il “rumore” degli argomenti logori, banalizzati dal dibattito quotidiano, stancamente politicizzati. Il loro sguardo si spogliò tornando alla purezza degli elementi primari, alla terra, agli spazi, alla luce, al muoversi come gesto essenziale e necessario. Quindi – per contrasto – misero nel mirino proprio il mondo occidentale, le convenzioni della macchina civilizzatrice, i processi conformistici che producono necessità tanto ineludibili quanto estemporanee, tutti quei percorsi esistenziali aridi, imperniati su una sindrome di superiorità culturale del tutto opinabile.
Se i testi di Ferretti vorticano attorno a questi temi modulando la voce su registri al solito ieratici e terrigni (coadiuvato dalla presenza “muliebre” – nel senso più esteso possibile – di Ginevra Di Marco), da par loro le musiche (firmate Zamboni, Magnelli e Maroccolo) sintetizzano un impasto assieme aggressivo e austero: pur se allineate alle tendenze sonore del momento (l’attitudine noise delle chitarre – con Giorgio Canali, va da sé, sugli scudi – non prive di accenti shoegaze, mentre le tastiere gravitano in bilico tra nostalgie psichedeliche e suggestioni trip-hop), una vibrazione antica e dolente attraversa sia i momenti più atmosferici che le pareti di suono magmatico e tumultuoso (un plauso al drumming di Gigi Cavalli Cocchi, energico e asciutto come una sentenza). È rock, sì, ma un rock che ha permeato la trama problematica del presente infiltrandosi fino ai nervi più antichi, liberando spettri elettrici abbacinati di tradizioni, anime (fiammeggianti) di canzoni che hanno il coraggio – la statura – di farsi monito, anatema e profezia.
Dieci pezzi, nessuno inutile, anzi tutti perfettamente sensati: da Unità di produzione che regola il tono e l’intensità dello sguardo (tra epica e apocalisse) alla malinconia pittorica di Ongii (dedicato al fiume che attraversa la Mongolia, un tempo lungo oltre quattrocento chilometri), dal tormento melmoso di Brace alle litanie mesmeriche di Gobi, dall’evocativa Bolormaa alla martellante Accade. Se a questo punto dovessi indicare il cuore del programma, punterei su Vicini: a parte l’architettura musicale (le pulsazioni bristoliane del basso, la circospezione cinematica delle strofe, le dinamiche esplosive del ritornello), testo e melodia raggiungono uno zenit espressivo che scopre con lucidità disarmante la ferita aperta di quei giorni (destinata ahinoi ad infettarsi): «Vicini per chilometri vicini per stagioni/Traversando frontiere che preparano le guerre di domani/Vicini per chilometri vicini per stagioni/C’è modo e luogo di scoprire che il confine è d’aria e luce».
Curiosamente, le due tracce conclusive sembrano riallacciarsi con la fase più scellerata del periodo CCCP, chiudendo il cerchio col punk più arty e abrasivo in Matrilineare (come potrebbero gli Stranglers colti da nevrastenie esotiche Battiato) e con una fregola up-tempo irriguardosa in M’importa ‘Nasega (dal testo zeppo di risvolti folgoranti a dispetto del titolo cazzone: «Probabili cadute su disastri annunciati/Connessioni smarrite tempi mal calcolati/L’apocalisse è quello che c’è già/Mistica Bio Meccanica/Eonica soap opera puntate quotidiane/Assegnate le parti corrono le comparse»). Una sorta di chiusura del cerchio che diverrà addirittura emblematica quando, pochi mesi più tardi, si diffonderanno le prime voci riguardo ai dissapori tra Ferretti e Zamboni, presto confermate dai fatti. Il resto è storia nota. Storia triste, intrisa di rammarico, perché come confermò La terra, la guerra, una questione privata – album live uscito nel gennaio del ‘98 ma relativo a una serata dedicata a Fenoglio del 1996 – i C.S.I. avevano raggiunto una padronanza straordinaria dei mezzi espressivi, tale da consentire loro di assediare la fortezza del rock da ogni lato, quello aggressivo e il progressivo, l’atmosferico e il feroce, “l’aria serena e di sostanza sferzante”.
Intanto il rock italiano sembrava intenzionato a passare al raccolto, producendosi nei lavori maturi delle sue band più rappresentative (Ho ucciso paranoia dei Marlene Kuntz, Armstrong degli Scisma e Non è per sempre degli Afterhours, tutti del 1999) proprio mentre usciva allo scoperto l’ultima grande rock band italiana dei 90s (i Verdena con l’album omonimo). Aveva tutta l’aria di un apice, da cui i C.S.I. – quelli maggiormente radicati e in possesso del linguaggio più autonomo rispetto ai modelli angloamericani – avevano finito per auto-escludersi. Purtroppo quella stagione di grandi prospettive per la nostra scena musicale fu solo il luminoso spegnersi di una candela: non tanto per demeriti nostri, quanto per la progressiva perdita di centralità del rock, presto scalzato dalle posizioni alte delle classifiche, dagli airplay radiofonici, dall’immaginario dei più giovani. Il rock italiano era sì assai cresciuto, ma troppo tardi per partecipare in maniera davvero significativa alla festa. Il nuovo millennio incombeva, spaurito, frammentato e diffusamente retromaniaco.
Venendo al presente, se oggi non rimpiango i C.S.I. è solo perché sono troppo impegnato a rimpiangere l’epoca in cui il rock era un crogiolo in grado di far piovere dischi come asteroidi sul quotidiano, squarciando il velo del consueto e del consolidato, obbligandoti a regolare la profondità e l’ampiezza dell’obiettivo. La grandezza di T.R.E. non sta tanto nella sua attualità (è sotto molti aspetti un disco datato) ma al contrario nel modo in cui continua a trasmettere il riverbero di quell’impatto, l’onda d’urto di quel momento lancinante e irripetibile. Tra gli album rock italiani dei 90s, a mio avviso va dritto sul podio.
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