Arbouretum – Let It All In (2020)

di Valerio Di Marco

Una delle certezze a cui ci si può aggrappare in tempi grami è la musica degli Arbouretum. Coming Out Of The Fog, si chiamava il loro (bellissimo) album del 2013, perchè forse solo la bellezza ci tirerà fuori dalla nebbia, metaforica s’intende.

Arbouretum come certezza, dicevamo, perché la loro trascinante mistura a base di rock grezzo e potente coglie nel segno anche con questo Let It All In, disco registrato ai Wright Way Studios di Baltimora e che arriva a tre anni di distanza dal precedente Song Of The Rose. Ennesima conferma, perché c’è da dirlo: finora la band statunitense non ha sbagliato un colpo. Come si fa a non cadergli ai piedi, a non concedersi anima e corpo a tanta sfacciata e primitiva bellezza, a non promettere amore eterno a chi è capace di dar vita a opere che, ognuna a modo suo, trasportano in altri tempi e luoghi, come fossero film che raccontano mille vite.

E ce ne sono, di storie, anche in questo viaggio che, come al solito quando si parla della formazione del Maryland, dal punto di vista musicale ci porta dritti nelle lande desolate dell’America più profonda, tra country, blues e folk-rock d’antan e un suono tipicamente a stelle strisce – dai “soliti noti” Bob Dylan e Neil Young, ai vari Johnny Cash, Gram Parsons e Creedence Clearwater Revival – alla ricerca di quelle radici che non hanno mai smesso di essere forti e rigogliose.

Ma Dave Heumann e soci non sono l’ennesimo carrozzone circense, una cover band sotto mentite spoglie tipo quelle che suonano alle serate a tema o nei locali dove si ascolta l’Americana. Lo stile che propongono ce l’hanno nel sangue, né più né meno della schiera di gruppi grunge che invasero i palinsesti delle radio all’inizio degli anni Novanta. Il linguaggio aderisce a codici precisi ma il contenuto è universale e le canzoni sono belle in sé, non perché ricordano qualcosa che è stato grande in passato. E in tutto questo, il quintetto riesce pure a essere originale, perché un suo pezzo lo riconosceresti tra mille. Pur essendo derivativi, i Nostri hanno uno stile tutto loro, diverso – per dire – dai Pontiak (insieme ai quali nel 2008 incisero lo split EP Kale), che sono in tre e poco interessati a fronzoli di sorta ed eccessive sottigliezze in fase di rifinitura. Un’attenzione ai dettagli che gli Arbouretum riversano anche nella sezione ritmica: non molte band alle prese con tali generi musicali utilizzano per la quasi totalità di un album due batteristi (David Bergander in aggiunta al drummer storico Brian Carey). Segno di applicazione in tema di suoni, oltre che di volontà di distinguersi dagli altri.

Da tanta cura tecnica, le arie spirituali, messianiche, delicate ed evocative delle canzoni, e il senso mistico del puntuto songwriting di Heumann escono rafforzati come una fede più solida, ma leggera e sollevata come dopo l’espiazione di un peccato. Resta, il cantante e chitarrista, il centro di gravità del lavoro, ma è la somma che fa il totale, e gli altri quattro addendi hanno un peso tutt’altro che marginale.

Non fosse così, non brillerebbe allo stesso modo la splendida melodia dell’opening track How Deep It Goes, che giocando a nascondino coi Wilco li scova uno per uno; gli epici e inesorabili rintocchi della marziale A Prism In Reverse, che riporta a certe cose dei primi dischi marchiati Pearl Jam o anche – se vogliamo – alle atmosfere desolate di una Drive dei R.E.M., prima ancora che al compassato incedere di Low, Sparklehorse e Red House Painters; il cosmico senso d’abbandono della strascicata No Sanctuary Blues; le promettenti pulsioni di libertà di Buffeted By Wind, che – in onore al titolo – plana alta seguendo le lisergiche migrazioni dei Byrds. Tutti passaggi, quelli appena elencati, marcatamente Arbouretum, nonostante il piglio citazionista. Ma Let It All In presenta anche qualche elemento di novità: oltre al già citato fatto del doppio batterista, si distingue la rollingstonesiana High Water Song, sorretta da un piano honky-tonk che affianca una sezione di fiati (tromba, sassofono e flicorno soprano), e in altri passaggi si ravvisa – appunto – una maggiore spinta in territori psych.

Nei testi abbondano le metafore, la natura come sfondo alla relazione umana con il tempo, la storia e l’attuale situazione sociopolitica: il rosso cremisi di un tramonto sull’Atlantico della suddetta How Deep It Goes o gli effetti del riscaldamento globale che hanno costretto il protagonista della anch’essa summenzionata High Water Song a emigrare e integrarsi in un nuovo paese. Ma c’è anche la sfera interiore, come nei quasi dodici minuti della title-track, caratterizzata dall’irresistibile marcia uptempo d’impronta quasi springsteeniana e che rappresenta il manifesto dell’album. Perchè è qui che il titolo trova spiegazione, con la riflessione sia sulle insidie che sui benefici del lasciare che il mondo esterno entri dentro la nostra dimensione personale. La risposta, però, non lascia dubbi: Let It all In è una vera e propria chiamata a raccolta. Un disco che parla di noi, qui e adesso, ma che sembra provenire da un’era lontana. Un album senza tempo, ma che il (suo) tempo sembra conoscerlo bene.

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