La magia dei Pink Floyd
I Pink Floyd nascono nel 1965 dalle ceneri degli Abdabs, nel momento in cui a Roger Waters, Rick Wright e Nick Mason si unisce Syd Barrett, che li porta a dominare la scena underground londinese con esibizioni che mescolano alchemicamente luci e suoni.
Notati dalla casa discografica EMI, i Pink Floyd pubblicano The Piper at the Gates of Dawn, vero e proprio manifesto del rock psichedelico inglese. Gnomi, spaventapasseri, il luciferino gatto Sam e un topo di nome Gerald rendono letterariamente eccentrica un’opera che grazie alle eccellenti doti compositive di Barrett risulta notevole anche sotto l’aspetto musicale.
Oltre a scrivere le canzoni, Barrett canta le liriche e suona la chitarra. Con uno stile sorprendente e coraggioso, il leader del gruppo inventa un approccio allo strumento che coniuga gli stilemi del chitarrista ritmico con quelli del solista. A rendere il suono del disco epocale contribuisce non poco la produzione in studio di Norman Smith, Pete Bown e David Harris.
Echi, riverberi, distorsioni fanno sì che paesaggi sonori sperimentali e avanguardistici si applichino all’impeccabile architettura delle canzoni create da Barrett, dando vita a un’opera originalissima.
Già dal disco successivo – A Saucerful of Secrets – Syd Barrett si autoemargina a causa dell’aggravarsi della schizofrenia e dell’abuso di acido lisergico.
La capacità di dare un contributo significativo alla composizione di nuovi brani e alla loro esecuzione – sia in studio che nei concerti – ne viene drammaticamente minata, tantoché viene sostituito da David Gilmour.
Barrett abbandona di fatto il gruppo, che privo del suo leader sembra destinato a sbandarsi.
Da The Piper at the Gates of Dawnal successo planetario diThe Dark Side of the Moon
Pink Floyd trova invece nuovi equilibri, e mentre Gilmour contribuisce al suono con uno stile chitarristico destinato a diventare un marchio di fabbrica, Waters diventa gradualmente il principale songwriter della band.
I dischi successivi all’esordio, quelli che vanno dal 1968 al 1972 – A Saucerful of Secrets, Ummagumma, Atom Heart Mother e Meddle – definiscono un’estetica musicale sempre più riconoscibile. I ritmi sono lenti, voluttuosamente cadenzati, mid-tempo, quasi sempre lontani dall’aggressività che caratterizza tante rock bands che si affermano negli stessi anni.
Il passo misurato ed epico delle composizioni allarga la dimensione degli spazi della stanza in cui i suoni del disco vengono amplificati.
Non vi sono più confini definiti tra le sonorità diffuse nell’etere e la coscienza dell’ascoltatore, cui si richiede disponibilità ad assecondare le atmosfere oniriche riprodotte attraverso i supporti sonori.
Che la musica dei Pink Floyd si presti a commentare (e a sua volta a proiettare) immagini viene provato anche dalla frequenza in cui in questi anni i quattro musicisti vengono ingaggiati per scrivere delle colonne sonore. Barbet Schroeder li assume per comporre ed eseguire il soundtrack dei suoi film More e La Vallée, e la colonna sonora di quest’ultimo è pubblicata col titolo Obscured by Clouds.
Di un film, un particolare film-concerto senza pubblico, sono protagonisti essi stessi. Si tratta di Pink Floyd live at Pompeii, diretto nel 1972 da Adrian Maben e girato nell’anfiteatro romano della località campana. Una performance destinata a diventare un’icona della storia del rock.
Non tuttavia quanto il disco che pubblicano nel 1973, che manda in orbita la loro carriera e ne consacra il rango di semidei: The Dark Side of the Moon.
È questa un’opera in cui – su un tappeto sonoro mai così levigato, notturno e sensuale, cui contribuiscono gli effetti di Alan Parsons – le liriche di Waters si dedicano platonianamente all’analisi delle “forme” che controllano l’andamento del mondo così come percepite dall’esperienza umana.
La filosofia dei Pink Floyd
Come ha fatto William Shakespeare e la filosofia fin dalle sue origini, così pure i Pink Floyd di The Dark Side of the Moon analizzano infatti e contemplano le cause dell’alienazione, la metafisica dell’Essere, l’assurdità dell’Esistere, la natura della percezione, i tratti che compongono l’identità, il significato dell’autenticità, lo scorrere del tempo, il timore della morte, il carattere della follia.
Dal disco uscito nel ’73 a The Final Cut, ultimo album inciso da un organico che comprenda Roger Waters, tali temi faranno parte della poetica dei quattro di Cambridge.
Nel disco dedicato al lato oscuro della luna, ma pure nel successivo Wish You Were Here, e in modo ancora più marcato in Animals e in The Wall, l’alienazione dal prossimo e gli ostacoli che si frappongono ad un’autentica comunicazione sono i temi dominanti della produzione pinkfloydiana.
Waters, autore della quasi totalità delle liriche, sviluppa nei quattro concept albums degli anni Settanta un pessimismo esistenziale e un sentimento di misantropia sempre più amari.
Sia Animals che The Dark Side of the Moon cantano l’insensatezza della condizione umana, mentre Wish You Were Here e The Wall sono focalizzati sull’assurdità della figura dell’artista – il musicista rock – nella sua veste di predicatore.
In tutte le creazioni – come ha acutamente notato la storica del rock Deena Weinstein – Waters si è basato sulle proprie esperienze per esplorare una varietà di tentativi frustrati di comunicare in modo autentico con gli altri.
L’arte per Waters – come per l’esistenzialista Camus – non dà sollievo, non costituisce un tonico alla nostra vitalità, non è uno strumento per sopportare la mancanza di senso del mondo. L’unica cosa che fa, l’arte, è dare struttura e coerenza, qualità di cui invece l’esistenza umana è priva.
di Tiberio Snaidero - Fonte originale dell'articolo
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