Isobel Campbell – There Is No Other (2020)

di Valentina Zona

In un ormai lontanissimo 2014, Isobel Campbell condivideva con orgoglio sul proprio canale Instagram un contratto discografico appena firmato per il suo prossimo album. Due anni dopo, There Is No Other era pronto, ma nel frattempo l’etichetta che avrebbe dovuto produrlo non c’era più. Cominciava con i peggiori auspici l’avventura di un disco lungamente atteso (uscito finalmente il 7 febbraio 2020, a 14 anni di distanza da Milkwhite Sheets, l’ultima prova solistica della Campbell, e a 10 da Hawk, l’ultimo con Lanegan); eppure, con una tenacia e una resilienza invidiabili, la Nostra non ha rinunciato a vederlo pubblicato, e alla fine ha trovato una via d’uscita grazie alla Cooking Vinyl di Martin Goldschmidt e Pete Lawrence.

Il risultato è, sorprendentemente, qualcosa che fin dalle prime note suona atemporale: come se il fatto di essere rimasto congelato per quattro anni ne avesse determinato una sorta di sospensione diacronica. Al suo interno si mescolano influenze composite: il consueto cantautorato dream-folk, vivacizzato da un chamber pop nostalgico, che richiama la tradizione degli anni 60 e 70 (da Gainsbourg a Simon & Garfunkel), una lieve psichedelia (suggerita anche dalla copertina curata dall’artista Luke Insect), e persino rimandi alla tradizione gospel. Tra gli episodi più interessanti, la dichiarazione d’amore per L.A. contenuta in City Of Angels, il tributo “sintetizzato” a Tom Petty con Runnin Down A Dream, il rétro-pop scanzonato di Hey World e The National Byrth of India, che a tratti ricorda una rivistazione pianistica di quel cantico struggente dei R.E.M. che è Everybody Hurts.

Si tratta di 13 brani composti con indiscutibile mestiere e con il tocco inconfondibile di una cantautrice che ha fatto della grazia e della soavità il suo marchio di fabbrica, accettando spesso il rischio di essere tacciata di eccessiva leziosità. Un rischio che si palesa più volte anche in quest’ultimo lavoro, che per quanto etereo e sognante, confina spesso con un racconto forse troppo mite e persino melenso della realtà. Il tone of voice dei messaggi contenuti in There Is No Other è un trionfo di leggerezza, che vuole esprimere una visione del mondo il più possibile lenitiva e rasserenante, uno state of mind probabilmente frutto anche del percorso intrapreso dalla Campbell, che ha studiato meditazione e che ha scelto un titolo coerente con gli insegnamenti appresi: There Is No Atoher vuol dire netta opposizione all’individualismo tipico della cultura occidentale, rifiuto della forsennata ricerca dell’alterità in favore di una tensione verso l’unità totalizzante e l’universalità.

Ed è forse in questa vena un po’ semplificatrice che rintracciamo uno dei più vistosi punti deboli di questo lavoro: la nostra contemporaneità è troppo complessa e dilaniata per poterla sintetizzare in un messaggio d’amore universale. E per quanto sia pregevole il tentativo stilistico di inventare una qualche forma di musica analgesica come rimedio contro le brutture del mondo, il progetto pare troppo ambizioso persino per la classe di Isobel Campbell.

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