Francesco De Gregori - De Gregori (1978)
Nel 1976 ad uno dei più grandi cantautori del mondo (e non esagero) capitano due cose: con un disco, magnifico, Buffalo Bill, incanta ancora centinaia di migliaia di persone con i suoi ritratti di personaggi, più o meno grandi, e almeno due canzoni capolavoro come Atlantide e Festival; la seconda, poteva far finire la carriera musicale di Francesco De Gregori. MIlano, 1976. Al Palalido c’è un suo concerto in programma. L’atmosfera è tesissima perchè qualche settimana prima un gruppo di contestatori interruppe un concerto di Lou Reed, per i prezzi troppo alti dei biglietti. Gli organizzatori scelsero di far scorrere il concerto con le luci accese e fecero entrare anche molti senza biglietto. Ma non bastò. Un gruppo di giovani della sinistra extra parlamentare (su questo ci sono state mille rivendicazioni, ma non è tanto importante dire a quale sigla appartenessero o si dichiarassero appartenenti) ferma il concerto una prima volta. De Gregori li lascia parlare, poi riprende. Viene definitivamente fermato e costretto a ritornare sul palco dove viene pubblicamente ”processato” perchè non dà adeguato contributo alla causa della rivoluzione. Viene addirittura “condannato” a seguire l’esempio di Majakovskij e di suicidarsi. De Gregori è sconvolto, e dichiara pochi giorni dopo il ritiro dalla scene. Passano due anni, ma la voglia di cantare e scrivere ha fortunatamente il sopravvento, e De Gregori ritorna con questo album. In copertina, lui in un prato spelacchiato intento a calciare una palla, gesto liberatorio e gioioso come pochi. Il disco, che si intitola semplicemente De Gregori esce nel 1978: come i precedenti, è un grande successo di vendite. Ma lo è anche per la bellezza impressionista delle piccole, scarne e bravi canzoni che lo compongono. Canzoni di tre minuti, dieci brani che in mezz’ora regalano magie delicate e sentite. Quasi un disco impressionista. E Renoir (nelle due parti) è la nuova versione del dolore da separazione sentimentale, come lo furono Rimmel e Atlantide. Natale con fisarmonica finale alla Dylan, è davvero toccante, L'impiccato è profetica nel raccontare i lati oscuri delle forze dell’ordire, 56 diviene la risposta alle effervescenze di quegli anni. La Campana ripercorre il doloroso iter del ritiro dalle scene ed è uno dei momenti più malinconici e toccanti. Babbo In Prigione, altro gioiellino, è su una violenza casalinga. Raggio Di Sole è dedicata alla nascita dei suoi gemelli. Due Zingari è forse una delle sua canzoni più sottovalutate, con il suo andare cinematografico, con la storia (anch’essa di estrema attualità) di questi due giovani delle perfierie, della loro vita in un paesaggio urbano desolato e desolante, impreziosita musicalmente dal sax di Mario Schiano. Rimane un’ultima canzone da raccontare, quella che apre il disco. Generale è, senza ombra di dubbio, una delle canzoni più belle della musica italiana, ed è la madre di tutte le canzoni sulla guerra. Ispirata dai luoghi dove De Gregori fece il servizio presso il Battaglione alpini “Tirano” di Malles Venosta, racconta i sentimenti nostalgici degli alpini dopo la visita di un generale, che scatena il loro la nostalgia di casa lontano dalla vita militare. La collina del testo è il Col di Tarces, la notte crucca e assassina è un riferimento al fatto che lì morirono molti giovani terroristi indipendentisti altoatesini. Il treno dietro la stazione si vedeva davvero dalla caserma Wackernell dove lui prestò servizio. Rimane una canzone, come l’intero disco, di un lirismo sofferto ma poetico, dove davvero la malinconia piano piano si palesa attraverso immagini familiari, ma che più che luci regalano ombre e disagi. Il completo riallaccio con il pubblico si avrà di lì a poco con il leggendario Banana Republic e successivo tour, con Lucio Dalla e Ron, che riempirà gli stadi italiani: non quando l’episodio del Palalido c’entri con questo disco, ma non è difficile cercarne le scorie e le ferite, di un’artista grandioso, che ci ha regalato in ogni occasioni poesia e classe.
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