Storia del rock: il fascino sublime dei Led Zeppelin

Le origini della specie: Led Zeppelin e Led Zeppelin II (1969)

Quando, nel gennaio 1969, l’americana Atlantic Records pubblicò l’omonimo esordio di un gruppo inglese chiamato Led Zeppelin, quasi nessuno ne aveva già sentito parlare. Eppure l’etichetta di Ahmet Ertegun non aveva esitato, pochi mesi prima, a metterli sotto contratto per l’inaudita somma di 200.000 dollari. Ritiratasi in uno studio preso in affitto a Londra a spese del chitarrista Jimmy Page, la band aveva registrato in 36 ore il primo album, il cui nastro aveva convinto i discografici americani a non lasciarsela sfuggire. Che cosa aveva colpito la Atlantic al punto da farla agire in un modo così inconsueto nel music business?

Il primo fattore era Peter Grant, il vulcanico produttore esecutivo (in realtà molto di più: mentore, amico, protettore, promoter, …) della band nata nella mente di Jimmy Page. Il secondo era senz’altro quest’ultimo, già turnista in centinaia se non migliaia di registrazioni negli studi discografici di Londra e quindi terza personificazione di guitar hero negli Yardbirds, dopo Eric Clapton e Jeff Beck. Page, infatti, terminata l’avventura con gli Yardbirds aveva confidato a Grant di aver intenzione di creare un gruppo capace di coniugare luce e ombra, leggero e pesante, blues e avanguardia.

Aveva bisogno dei musicisti giusti, però, ma grazie all’intuito, la conoscenza della scena musicale inglese e a un paio di circostanze fortunate li trovò in fretta: John Paul Jones, che era a sua volta un session man, molto ricercato per la sua abilità di suonare quasi ogni genere di strumento; Robert Plant, allora un giovane e misconosciuto cantante di provincia; e John Bonham, un batterista fin troppo rumoroso raccomandato da Plant. Si trovarono in una saletta prove di Gerrard St. per vedere se insieme avrebbero potuto funzionare. Page diede il la a Train Kept A-Rollin e … la stanza esplose!

Led Zeppelin (I) è un disco fatto in gran parte di covers, ma ciò non impedisce ai quattro di apporre da subito il proprio marchio di fuoco sulla storia del rock.

L’iniziale Good Times Bad Times apre il disco mettendo da subito in evidenza la fantasmagorica abilità percussionistica di John ‘Bonzo’ Bonham; Babe, I’m Gonna Leave You stravolge l’approccio liricheggiante di Joan Baez a favore di un taglio folk psichedelico e di un arrangiamento da marcia militare che esaltano il cinico romanticismo di Plant; Dazed and Confused inaugura il coté sperimentale di Page, che suona la chitarra elettrica con l’archetto e contribuisce in tal modo alle atmosfere dark e paranoidi del brano ispirato da Jake Holmes; Communication Breakdown, dal canto suo, inietta energia direttamente in vena, inaugurando l’hard rock e prefigurando il punk.

Il seguente Led Zeppelin II, uscito nell’ottobre dello stesso 1969 e registrato in mille studi diversi durante le poche pause delle trionfali tournée nordamericane, conferma quanto lasciato intuire dall’album d’esordio: i Led Zeppelin non fanno rock, i Led Zeppelin sono il rock (Giovanni Giampaolo, cit.).

La più grande rock band del mondo: Stairway to Heaven

Led Zeppelin II contiene, tanto per cominciare, uno dei più spettacolari rock anthems della storia: Whole Lotta Love. Aperto da un riff assassino, il pezzo si sviluppa intorno all’ugola scorticante di Robert ‘Percy’ Plant, che urla il suo desiderio sessuale per una donna dissoluta e infedele. L’amplesso è rievocato sia dall’audacia del testo – “I’m gonna give you every inch of my love” – che dalla chitarra di Page, prima inebriante grazie una serie di effetti sonori ipnotici e stranianti, poi icastica nel dettare una serie di assoli ravvicinati e urgenti come gli spasmi di un orgasmo.

Ma è tutto il disco ad essere una bomba (in America lo chiamavano infatti Brown Bomber): da What is and What Should Never Be a Heartbreaker, da Ramble On a Bring it On Home l’album non concede pause, eccita ed affascina l’ascoltatore con la sua inimitabile miscela di blues e hard rock passati alla centrifuga Zeppelin. Ogni pezzo suona originale e magico, grazie alla perizia dei quattro musicisti ma anche per merito degli arrangiamenti raffinati dei brani e alla produzione spiazzante dei suoni.

Se Led Zeppelin lavora di squadra, è giusto però segnalare la classe di John Paul Jones, che con le linee del suo basso è capace di firmare lo stile di un’intera canzone (Ramble On docet) e, soprattutto, il genio di Jimmy Page, responsabile del suono di questo e di tutti gli altri dischi prodotti dalla ditta Led Zeppelin. Le straordinarie qualità vocali di Percy e la potenza devastante del drumming di Bonzo possono venire apprezzate proprio grazie alle intuizioni in fase di registrazione e di missaggio di Pagey, al cui talento e alla cui passione si deve, inoltre, la superba qualità dei Remasters delle opere della band messi in circolo a partire dal 1990.

Dopo il successo planetario di Led Zeppelin II, i quattro staccano per pochi mesi, quelli necessari a Plant e Page per comporre i pezzi acustici di Led Zeppelin III (ottobre 1970), il disco più ambizioso del loro catalogo, in cui l’ideale pageyano di una musica che riesca ad accostare Light and Shade trova la sua più compiuta realizzazione.

L’album si apre con Immigrant Song, brano che qualche mese prima, sullo sfondo di un tramonto di fuoco, aveva annichilito i fans accorsi ad acclamarli al Festival di Bath. Sul medesimo lato del vinile trova posto Since I’ve Been Lovin’ You, un blues sanguinoso che contiene un sontuoso assolo della Gibson Les Paul di Jimmy Page, mentre la seconda facciata di apre con Gallows Pole, un traditional in cui i tamburi di Bonzo, la voce di Percy e il banjo di Pagey spingono il ritmo a cadenze sempre più veloci e mandano in estasi l’ammaliato ascoltatore.

Parlando di estasi, tuttavia, entriamo in area Stairway to Heaven.

Led Zeppelin: l’estetica del sublime

Stairway to Heaven è la canzone più trasmessa nella storia della radio americana. Si tratta del brano-simbolo del quarto album di Led Zeppelin (1971), un’opera senza titolo e sulla cui copertina non figura nemmeno il nome del gruppo.

Stairway deve il suo successo in parte alla cripticità del testo, di cui è protagonista una signora intenzionata a comprarsi una scalinata per il Paradiso. Lo deve però soprattutto all’interpretazione vocale di Robert Plant, capace di passare con disinvoltura dall’andamento da romanza medievale che caratterizza il primo movimento del pezzo fino ad arrivare, dopo ulteriori movimenti folk e progressive, allo stile proto-heavy metal della parte finale del brano. Lo deve, anche, al leggendario assolo di Jimmy Page, il quale, in una canzone il cui ritmo si fa via via più serrato mano a mano che il brano progredisce, prende a ripetere una sequenza di note la cui iterazione si spererebbe infinita proprio nel momento di massima velocità della composizione.

Stairway to Heaven ci porta in un altro mondo, e la stessa cosa fanno The Battle of Evermore e When the Levee Breaks, dallo stesso album, No Quarter da Houses of the Holy, Kashmir da Physical Graffiti e Achilles Last Stand da Presence. Sono tutte canzoni che danno l’impressione di provenire da isole che galleggiano in galassie atemporali, in cui voce e suoni non siano decodificabili attraverso coordinate note e la cui esecuzione continui a riproporsi, in loop, anche dopo che per qualche minuto noi siamo riusciti a captarne il fluire.

L’esito dell’ascolto, anzi degli ascolti senza fine che tali capolavori impongono a chi non sia privo di gusto è una sorta di commosso spaesamento, un’illusione di misura nel disordine, di piacere nel dispiacere.

É infatti l’estetica del sublime, di ciò in confronto al quale tutto il resto è piccolo, a caratterizzare l’opera sempiterna di Led Zeppelin.

di Tiberio Snaidero - Fonte originale dell'articolo

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