I mille volti di David Bowie

I primi passi sulla scena musicale di David Robert Jones

Prima di essere Bowie, David Robert Jones (1947 – 2016) pubblica canzoni e suona in concerti come membro dei Kon-rads, dei King Bees, dei Manish Boys e dei Lower Third a nome Davy Jones. Ribattezzatosi David Bowie, pubblica col suo nuovo gruppo – The Buzz -, il singolo Can’t Help Thinking About Me/And I Say To Myself, per poi iniziare una vera e propria carriera solista, che lo porta ad incidere il primo della serie di grandi pezzi che costellelleranno la sua carriera: Space Oddity.

Apparsa poi sul secondo album eponimo, quello uscito nel 1969, rimane forse la sua canzone più nota, e sicuramente è stata quella di maggior successo commerciale nel Regno Unito.

Bowie entra quindi negli anni Settanta con The Man Who Sold The World, un album notevole da svariati punti di vista, a partire dalla copertina. Su questa appare infatti un Bowie dai boccoli preraffaeliteggianti che, languidamente adagiato su un divano, indossa un abito femminile. Le parole dei testi dal canto loro sono assai inquietanti, oscure e paranoidi. La musica, infine, è sorprendentemente diversa da quella acustica e spesso influenzata dal folk dei primi due dischi.

Il gruppo che lo accompagna, The Hype, si avvale del suono decisamente hard rock della chitarra di Mick Ronson e delle potenti linee di basso tracciate da Tony Visconti, che si confermerà una presenza decisiva nella produzione di alcuni tra gli album più significativi della carriera bowiana.

Ziggy Stardust, Thin White Duke, Nathan Adler… le mille maschere di un artista poliedrico

L’immagine androgina veicolata da Bowie attraverso la copertina di The Man Who Sold The World è solo la prima di una serie infinita di trasformazioni che accompagneranno l’intera carriera di David Robert Jones.

Una buona guida sono le copertine degli album: su Hunky Dory (1971), Bowie si fa ritrarre in primo piano in una teatrale posa à la Marlene Dietrich; la front cover di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (1972) è invece ispirata alle atmosfere del libro di William Burroughs Wild Boys, e introduce la figura di Ziggy, che con il suo taglio di capelli, il suo costume e la sua mitologia resterà uno dei personaggi più riusciti del catalogo bowiano; ancora più iconica la foto che caratterizza Aladdin Sane (1973), che ritrae in mezzobusto un Bowie nudo e a occhi chiusi, sulla parte destra del cui viso appare la riproduzione di una sorta di saetta multicolore; la copertina di Diamond Dogs (1974) favorisce l’entrata in scena di Halloween Jack, leader della gang di antropocanidi che dà il nome all’album.

La copertina originale, su cui appaiono ben in vista anche i genitali della creatura impersonata da Bowie, verrà presto ritirata dal commercio. Su Station to Station (1976) si cambia ancora: ora Bowie impersona The Thin White Duke, un carattere in realtà già apparso durante il tour per la promozione di Young Americans, uscito l’anno precedente.

Si tratta di una persona che rappresenta una sorta di algido cabarettista dai tratti aristocratici e nazistoidi. Gli anni successivi, trascorsi a Berlino, non producono nuovi personaggi ma solo la grande musica della trilogia berlinese (Low, Heroes e Lodger). Rimandi alle copertine di tali album – o, a seconda delle edizioni, a quelle caratterizzate dalle figure di Ziggy, Alladin Sane e Halloween Jack – appaiono sul retro della copertina del disco che conclude gli incredibilmente creativi anni Settanta: Scary Monsters (1980).

Sulla front sleeve Bowie, stavolta in versione Pierrot, sembra voler ricordarci il carattere finzionale di tutti i suoi travestimenti, invitandoci a non dimenticare che ognuno dei personaggi cui ha dato vita non è altro che un ruolo teatrale che di volta in volta ha scelto di interpretare.

Dal trionfo di Let’s Dance a Lazarus: una carriera contrassegnata dalle resurrezioni
Gli anni Settanta hanno dunque fatto conoscere tanti Bowie, e non solo dal punto di vista dell’immagine. La musica prodotta nei suoi dischi ha infatti ogni volta – programmaticamente – spiazzato l’ascoltatore.

Folk, rock, soul, funk, elettronica e sperimentazione si alternano nei suoi dischi e impediscono di ascrivere la sua opera ad un genere musicale preciso. Il travestitismo, le tematiche dello Spazio e della follia, la dimensione letteraria di numerosi testi contribuiscono a loro volta a fare di Bowie un’icona culturale, mentre la versatilità del suo stile canoro gli permette di imbarcarsi in ogni sorta di avventura sonora.

Dopo i fantasmagorici anni Settanta, conclusisi con la pubblicazione dello splendido e complesso Scary Monsters, era lecito domandarsi quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Let’s Dance (1983) riesce ancora una volta a sorprendere. Bowie ha infatti deciso che l’abito di avanguardista di successo gli sta stretto, e pianifica la propria trasformazione in cantante pop.

Coi sette milioni di dischi venduti dall’album, prodotto insieme al chitarrista degli Chic Nile Rodgers, centra agevolmente l’obiettivo. I successivi Tonight (1984) e Never Let Me Down (1987) proseguono sulla stessa scia, lasciando tuttavia delusi i fan del “primo” Bowie. Questi non si guarda però mai indietro, e risponde a chi paventa il suo imminente reclutamento nella compagnia di giro dei casinò di Las Vegas addirittura abbandonando la carriera solista a favore del ritorno al format classico della rock band.

Nascono così i Tin Machine, i cui due dischi eponimi del 1989 e del 1991 vedono Bowie tornare, insieme a Reeves Gabrels e ai fratelli Hunt e Tony Sales, ai fondamenti del rock’n’roll. L’esperienza serve a David per lasciare la melma mainstream che lo stava travolgendo e per azzerare, ancora una volta, la sua parabola artistica. Lasciatosi alle spalle anche l’esperienza iconoclasta e fondamentalmente sadomasochista dei Tin Machine, torna alla carriera solista, cui resterà fedele fino alla fine.

Tra il 1993 e il 2016 pubblica ulteriori otto dischi, di cui i più notevoli sono 1. Outside (1995) e Blackstar (2016).

Il primo segna il ritorno della collaborazione con Brian Eno, uno degli artefici della Trilogia berlinese. Si tratta di un concept visionario in cui Bowie interpreta non uno, ma sette personaggi in quello che lui stesso ha definito “iper-ciclo di Dramma Gotico non lineare”.

Nei settantacinque minuti che lo compongono, sonorità industrial rock si combinano ad altre che è corretto definire free jazz, dando vita ad una tessitura multipla in cui fanno capolino inserti techno e drum’n’bass, il tutto tenuto insieme da cinque monologhi parlati dai personaggi impersonati da Bowie.

Un disco splendidamente imperfetto, una delle vette della produzione dell’artista.

L’ultimo cd di David Bowie

Gli ultimissimi anni di vita sono dedicati da Bowie – gravemente malato – a due progetti correlati: l’album Blackstar, che uscirà l’8 gennaio 2016, nel giorno del sessantanovesimo compleanno e due giorni prima della morte; e il musical Lazarus, scritto insieme al drammaturgo irlandese Enda Walsh, alla cui prima nuiorchese del 7 dicembre 2015 Bowie riuscirà ad assistere, in quella che sarà la sua ultima apparizione pubblica.

La storia di Lazarus ha come protagonista Thomas Jerome Newton, già interpretato da David nel film The Man Who Fell On Earth, di Nicolas Roeg, e le musiche sono una selezione del catalogo bowiano interpretate dal cast della compagnia, più quattro nuove composizioni.

Blackstar – che contiene a sua volta una canzone intitolata Lazarus – è, insieme al videoclip di tale pezzo, il testamento di Bowie. Sonorità dense, cupe, ipnotiche permettono a questa sua ultima produzione di compendiare un’inimitabile parabola musicale, artistica e intellettuale nella cifra estetica a lui più consona: quella del sublime.

A cura di Tiberio Snaidero - Fonte originale dell'articolo

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