Florist - Emily Alone (2019)
Inutile divagare, la malinconia è monocromatica: grigio, blu, giallo, verde, nero e rosso sono solo sfumature che a volte tendono a confondere la mente, nel tentativo di renderla indolore. La malinconia è solo figlia della solitudine, non ha colori né profumi, quando la insegui lei sfugge, quando invece lei ti insegue non hai via di scampo. Emily Sprague con la band dei Florist ne ha inseguito le tracce, attraverso una sbornia lo-fi dalle sorti alterne, e non è stato del tutto felice il tentativo di liberarsene aggiungendo essenze più profumate e sonorità più gradevoli, nel pur introspettivo “If Blue Could Be Happiness”.
Raggiunta dall’ombra lunga della momentanea lontananza dei suoi colleghi Felix Walworth, Jonnie Baker e Rick Spataro, Emily Sprague si rifugia dietro il nome della band, per un’escursione solitaria non a caso intitolata “Emily Alone”. Il titolo non si riferisce solo alla solitaria messa in opera sonora, ma anche alla solitudine che l’artista ha vissuto in seguito alla perdita della madre, a una relazione finita, e al trasferimento in California.
“Cammino e leggo, passo del tempo al mare, ma nulla riesce a far chiarezza su quel che sono, ho solo capito che la tristezza viene liberata da parole e suoni che canto per me”: in queste parole di “As Alone” è racchiusa tutta la potenza di queste dodici canzoni, che non sacrificano la loro autonomia alle regole del folk introspettivo e nostalgico. “Emily Alone” è, senz’altro, un disco contemplativo, meditativo, ma solo perché le canzoni sono così potenti da poter star in piedi senza alcun supporto, se non quello dell’anima.
La purezza armonica di queste dodici tracce è commovente: con una narrativa lineare e pochi accordi, Sprague gioca con la prevedibilità dell’indie-folk, reinventandone la natura lo-fi, grazie a una serie di intuizioni armoniche pronte a librarsi con leggerezza, fino a lambire i confini dell’eternità. La rarefazione delle atmosfere rende a volte impalpabile la profondità interiore di molte tracce, il minimalismo di “Moon Begins” o della toccante ballata pianistica “M” è più simile a un’intuizione di Brian Eno che a un soliloquio neo-folk.
Piccoli e preziosi suoni di melodica, il canto degli uccelli e una chitarra elettrica dai toni morbidi vengono in soccorso di chitarra e voce, accarezzando con un lieve bisbiglio il candore di “I Also Have Eyes”, la cadenza ciclica di “Celebration”, il piglio più “vivace” di “Now” o l’amara angoscia che impedisce all’autrice di cantare in “Still”.
“Emily Alone” è uno di quei pochi album per il quale oso citare come riferimento creativo ed emotivo il tanto abusato e sfruttato Nick Drake. I dodici affreschi sonori di questo tormentato e struggente racconto della musicista americana sono destinati a seguire in parti le sorti delle creazioni del musicista inglese morto nel 1974: trascurati dal pubblico ma pronti a resistere all’usura del tempo.
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