Wilco – Ode To Joy (2019)

di Stefano Solventi

Venticinque anni di Wilco: un buon pretesto per fare bilancio. Ode To Joy, il loro undicesimo album, in effetti lo fa, ma le somme che tira riguardano tanto le cose della vita che la parabola musicale. Anzi, più che tirare le somme è un raccogliere detriti, macinare le scorie. La fragilità e la tenacia dei sentimenti, l’incomunicabilità al tempo della comunicazione impazzita, la consapevolezza di come il tempo ci renda inermi, in balia dei rimpianti, l’illusione del solipsismo come via di fuga, la vulnerabilità come chiave per decifrare la bellezza che comunque pervade tutto, come l’amore: temi che abitano queste nuove canzoni della band di Chicago, tre anni dopo il non riuscitissimo Schmilco, nel mezzo i due dischi solisti di Jeff Tweedy che si è pure permesso di scrivere un libro autobiografico, Let’s Go (So We Can Get Back), appena pubblicato anche in Italia da Sur.

Il leader vive quindi, a 52 anni e con alle spalle non poche disavventure emotive, una fase creativa impressionante, seppure i picchi lancinanti raggiunti tra Summerteeth e Sky Blue Sky sembrino piuttosto lontani. Qualche riga fa ho adoperato il termine “parabola”, e qui ribadisco: nella vicenda dei Wilco si intravede una fase ascensionale, il decollo dalla piattaforma folk-rock verso una sua rielaborazione al limite della trasfigurazione che però non ha significato mai un suo definitivo superamento. Nelle ibridazioni pop-psych, nel cubismo wave e nelle digressioni krautrock, era pur sempre implicito il rientro alla base, un cordone ombelicale che non smetteva di nutrire la calligrafia di Tweedy e compagni con i frutti terrigni di un Woody Guthrie o coi miraggi sabbiosi di un Gram Parsons, quello sguardo ad altezza d’uomo sulla pulviscolare complessità del quotidiano, quei cortocircuiti tra tensioni collettive e crolli personali che puoi raccontare davvero solo ricorrendo alle particelle elementari. Il rientro alla base puntualmente avvenne, ma col fin troppo normalizzato Wilco (The Album) – paradossalmente, ma neanche troppo, uno dei loro titoli più venduti – mentre nei lavori successivi si avvertiva il tentativo di mettere a frutto l’esperienza, con risultati dignitosi (lo sfaccettato ma un po’ manieristico The Whole Love) anche se non sempre a fuoco (la sbrigativa fregola elettrica di Star Wars). Penso che se c’è un difetto nella ormai lunga carriera/parabola dei Wilco, vada individuato nell’atterraggio, morbido come previsto (auspicato), abbastanza disinvolto in termini di manovra, ma consumato in territori tutto sommato prevedibili, poco interessanti.

In un certo senso, Ode To Joy cerca di ripensare quell’atterraggio, un po’ come se solo oggi si consumasse il post-Sky Blue Sky. Un atterraggio morbido, sì, ma teso, nel quale avverti la vibrazione di un motore potente e reattivo tenuto volutamente a bassi giri. Operazione tutt’altro che semplice e infatti l’aspetto più affascinante è la ricchezza poco appariscente del suono, una tessitura placida eppure batterica, dove il dialogo tra fraseggi e pennate scolpisce un bassorilievo sempre sul punto di scivolare nell’inquietudine, dove la ritmica svicola dalla linearità delle ballads e a tratti sembra alludere ai sussulti di un sistema nervoso alle corde, dove il canto è una voce allo stremo costantemente stupita dalla capacità di trovare forza e motivi per proseguire, tenuto conto di tutto il disincanto di cui sono intrisi i dettagli e il quadro generale.

Musicalmente, le canzoni di questo disco – prodotto assieme all’ormai sodale Tom Schick – rinunciano a evolvere, o meglio cambiano segno all’evoluzione. Sembrano implodere. Da buon atterraggio, rivolgono lo sguardo verso l’interno, alle conseguenze del ritorno. Al disequilibrio tra quello che è rimasto e che c’era, al se stesso nuovo che è sempre una versione prosciugata di sé. Mette subito tutto in chiaro la opening Bright Leaves, col suo ciondolare come una processione esausta tra ronzii e vibrazioni liquide, sghembe, l’acustico, l’elettrico e il sintetico (chitarre, piano, synth… ) come colori di una stessa tavolozza affranta ma viva. Viva come una foglia croccante e brillante sepolta dalla neve. È come ascoltare il rumore di un processo in background, o un Quiet Amplifier, come suggerisce questa marcia assieme arcaica e motoristica su cui Tweedy tesse una filastrocca (“I wish your world was mine”) che non saprei dire se più spettrale o crepuscolare, condita da arpeggi e fraseggi sparsi, bordoni che si spampanano, tutto un brulicare inafferrabile e volatile di impronte sonore, conseguenze di un’usura che coincide ormai con la memoria (e chissà se quel “I tried, in my way, to love everyone” non sia davvero una reminiscenza – una scoria – Leonard Cohen).

La presenza di Nels Cline, spesso preponderante per non dire invasiva nella fase matura dei Wilco, diventa qui secondaria, o meglio integrata, funzionale alla trama. Anche quando si concede l’assolo, suona come un’ulcerazione necessaria – come nell’alienata We Were Lucky, dove spedisce i sapori lennoniani dalle parti di una On the Beach nevrastenica – oppure una vampa fugace, la pennellata che consolida, vedi quella Everyone Hides che si gioca la carta del pezzo più energico in scaletta, quasi gioioso, anche se è una positività intrisa di fatalismo (“And you know where the bodies are buried/But you can’t remember where you buried the mines”), l’energia scoscesa che si consuma senza incendiarsi. Se White Wooden Cross accenna aromi tex-mex ma col cuore trafitto da una spina Alex Chilton, e se An Empty Corner chiude la scaletta in maniera spietata (“Eight tiny lines of cocaine/Left on a copy machine/In an empty corner of a dream”) eppure pietosa, il sottofinale di Love Is Everywhere (Beware) – coi suoi bagliori sbilanciati su un friabile ottimismo – e Hold Me Anyway – echi George Harrison e movenze swingate McCartney, le chitarre che s’impastano in un assolo glam multicolore – rappresentano l’elemento di contrasto iniettato nelle vene afflitte del disco, un passo oltre lo scoramento, anche se un passo appena (si tratta pur sempre di un inno alla gioia, al netto di tutta l’ironia che può trasmettere un titolo del genere).

Ode To Joy ha quindi il grande merito di suonare come quell’approdo che finora i Wilco avevano parzialmente disatteso, la chiusura di un cerchio lasciato troppo a lungo inconcluso. Per essere all’altezza dei capolavori che sappiamo, mancano forse intuizioni melodiche di altissimo livello, ma la sensazione è che gli ascolti riveleranno la forza di queste canzoni, cui arrangiamenti più brillanti e dinamici avrebbero forse giovato in termini di incisività, solo che – si sarà capito – non sarebbero stati gli abiti giusti. Questo disco è, infine, la conferma, casomai ce ne fosse bisogno, che certi autori trovano la propria voce più autentica quando si pensano come parte di un collettivo, quasi che il lavoro per mediare, equilibrare, proteggere ciò che è vulnerabile ed esposto, coincidesse con lo stesso sforzo creativo. Bentornati, Wilco. Vi aspettavo da più tempo di quanto ricordassi.

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