Robbie Robertson – Sinematic (2019)

di Cico Casartelli

La leggenda di uno dei più grandi gruppi del creato rock, naturalmente The Band; il concerto e il film-concerto ritenuti da molti i più belli di sempre, naturalmente The Last Waltz; le colonne sonore sempre perfettamente assemblate a partire da Toro scatenato fino al nuovissimo The Irishman, naturalmente al servizio di Martin Scorsese. Minimo comune denominatore di tutto ciò sempre lui, naturalmente Robbie Robertson – che oramai da decenni vive un’aristocratica esistenza che lo vede periodicamente rigenerare il mito del suo antico gruppo, frequentare amici altolocati come l’inseparabile David Geffen e fare da ascoltatissimo consultant per la Rock & Roll Hall Of Fame. E ogni tanto il canadese se ne esce con opere soliste che a volte hanno davvero rinverdito antichi fasti come l’omonimo debutto (1987) e lo straordinario concept album Storyville (1991); a volte sono rimasti un po’ in mezzo al guado, tipo i 2 album dedicati alle sue radici Pellerossa, Music For The Native Americans (1994) e Contact From The Underworld Of Redboy (1998); e a volte hanno deluso ampiamente le attese, tipo l’ultimo How To Become Clairvoyant (2011), che inizialmente doveva essere 1 disco a 4 mani con Eric Clapton (in verità, il fraterno pard Manolenta è comunque ospite in ¾ dell’album).

La domanda è d’obbligo: dove si colloca il nuovo Sinematic, forte di una pletora di ospiti che vanno da Van Morrison a Howie B, peraltro già emblematico nel titolo (sin + cinematic)? Difficile a dirsi. È un disco complesso, che un po’ cerca di riallacciarsi al mondo The Band; un po’ cerca strade dissimili che portano a certe cose di Peter Gabriel come del resto già accaduto in passato; un po’ batte i sentieri del cinema, perché alcuni dei nuovi brani sono stati pensati anche per il già citato film di Scorsese con Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel e Robert De Niro; nonché per il nuovissimo documentario Once Were Brothers/Robbie Robertson And The Band, appena presentato al Toronto International Film Festival (le anticipazioni dicono che Bob Dylan, Van Morrison, Bruce Springsteen, Eric Clapton, David Geffen e altri celebri nomi siano parte integrante del doc, al di là delle immagini di repertorio). Senza scordare che lo stesso Robertson ammette, per buona parte, di aver usato come concept cianografico del lavoro la sua imperdibile autobiografia, Testimony (2016).

La prima cosa che si nota è la sua voce: sebbene non sia mai brillata per estensione e, anzi, spesso bersagliata da molti impietosi detrattori, in verità nella piena anzianità piace per come sinuosa si muove nei registri bassi, senza mai strafare né cercare di farsi spazio in campi non consoni – accostabile per certi versi a quella del compianto e suo conterraneo Leonard Cohen. Certo, Cohen aveva profondità e interiorità che Robertson non può sfoderare – difatti, al tempo di The Band quel compito era affidato ai “tre tenori” Levon Helm, Rick Danko e Richard Manuel – ma sa difendersi. Sintomatico il brano d’apertura, I Hear You Paint Houses, duetto con il vecchio amico Van Morrison: la voce potentissima del Belfast Cowboy e quella in penombra di Robbie regalano emozioni non scontate, scorrendo il testo decisamente macabro, contando pure che il brano è ispirato al libro di Charles Brandt dal quale è stato tratto l’imminente film di Scorsese. Sarà un piacere sentire/vedere come il Band-man e il regista newyorchese l’avranno usato nella pellicola – conoscendo l’assodata maestria che li distingue nei montaggi musica-immagini, se solo si pensa a Goodfellas, The Departed, Casino, New York Stories o The Wolf Of Wall Street, il risultato sarà eclatante.

Da nord-irlandese a irlandese il passo è breve. Ecco quindi che Robertson per Dead End Kid arruola l’ex leader dei Frames ed ex metà degli Swell Season, Glen Hansard: brano tetro, decisamente ispirato a Peter Gabriel nel mood produttivo e che lascia un senso di minaccia ascoltando e riascoltando la performance dei 2. Il brano, per inciso, è espressamente tratto da 1 capitolo di Testimony, dove Robertson narrava della sua vita adolescenziale nelle strade di Toronto comandate da gangster ebrei (la famiglia Robertson non ne era estranea).

The Band. A 76 anni è lecito essere un po’ nostalgici, specie se quella che hai scritto da fine anni 50 fino all’Ultimo valzer per il Giorno del Ringraziamento 1976 va oltre lo status leggendario: Once Were Brothers, con ospiti a sparigliare e a confondere quali il giovanissimo keniota J.S. Ondara e il cantautore di Memphis Citizen Cope, è iper celebrativa, a tratti anche un po’ iper arrangiata; ma ha il pregio di evocare i vecchi compagni, anzi, i vecchi road warriors con cui Robertson ha intrecciato un legame indissolubile. Sempre restando musicalmente nelle atmosfere del vecchio gruppo, anche Let Love Reign, peraltro espressamente dedicata a John Lennon, ha il sapore delle vecchie cose – sapore accentuato anche dall’intro di chitarra che palesemente cita un remoto ma indimenticato numero Chess Records, Smokestack Lightnin’ del bluesman Howlin’ Wolf (ma trattandosi dell’intro di chitarra, l’omaggio potrebbe essere in realtà a Hubert Sumlin, chitarrista che alla Chess si divise fra il Lupo e Muddy Waters), e un groove che continua sulle frequenze di Susie Q di Dale Hawkins. Un pezzo che sarebbe stato bene in Storyville.

Siccome Robbie è un maestro incontrastato nel mettere insieme in formato canzone storie che non ha vissuto, fin dai tempi della Guerra di Secessione e di The Night They Drove Old Dixie Down – quel formato è ripreso pure nella fosca The Shadow, ispirata al radio drama anni 30, all’epoca narrato da Orson Welles. Avere fra i migliori amici Scorsese aiuta sia a essere “cinematico” sia a trovare ispirazioni meno scontate. Martin che è dietro la tenda anche in Beautiful Madness, allusiva cokesong che rievoca quando i 2 amici condividevano una casa a Hollywood a cavallo fra anni 70 e 80, dove per loro stessa ammissione coltivavano certi vizietti ma pure l’amore per il cinema. Per la cronaca, Robertson afferma che il brano ha più di una reminiscenza con il plot di Dietro lo specchio (1956), capolavoro di Nick Ray dove il protagonista James Mason, insegnante di scuola e padre di famiglia, si ritrova ricoverato per una grave forma di artrite cui i medici, per salvarlo, impongono segretamente una terapia farmacologica a base di cortisone che lo risucchierà in un vortice di paranoia & addiction. Quando il noir incontra l’edonismo 70s/80s. Chapeau a Robbie, che la sa sempre lunga.

Sinematic, pregno di nostalgia e inevitabilmente anche di morte, è interessante anche negli episodi più d’atmosfera, tipo Walk In Beauty Way in onore di Jim Wilson, scomparso collaboratore di Robbie ai tempi di Music For Native Americans, pezzo fra l’altro interamente cantato da Laura Satterfield (figlia di Priscilla Coolidge nonché nipote di Rita Coolidge, pure loro coinvolte nei dischi “indiani” di Robertson); oppure i 2 strumentali Wandering Souls e sopratutto Remembrance, quest’ultimo in memoria di un altro altolocato amico scomparso, il cofondatore di Microsoft Paul Allen, cui il canadese riserva un vibrante elogio no words dove si porta appresso anche compagni di fama quali Derek Trucks, Doyle Bramhall II e Jim Keltner. A conti fatti, è sempre bello perdersi fra peccato e cinema, se il Virgilio che t’accompagna si chiama Robbie Robertson. Sinematicamente!

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