Bruce Springsteen: il sogno americano

Bruce Springsteen rivela la sua grandezza cantando Dream baby dream dei Suicide, un pezzo di un gruppo semisconosciuto che viene reinterpretato con l’umiltà che si riserva ai classici

Non soffro di particolare sudditanza culturale nei confronti degli americani. Ma ci deve essere un motivo per cui, insieme agli inglesi, da cinquantanni a questa parte sono i migliori nel campo delle arti visive e sonore.

Il motivo lo si può ricercare nei percorsi formativi, nell’ambiente culturale, nei sogni e negli incubi che riescono a concretizzare. Lo si può ricercare nei fondi che mettono a disposizione, nell amore e nel rispetto delle loro tradizioni, ovunque. Lo si può ricercare ovunque, ma il dato di fatto è che ci sfugge la ragione vera di tale superiorità.

La possiamo ritrovare parzialmente nel finale di “Kill Bill”, o meglio ancora in quello di “Jackie Brown”, oppure nelle musiche che i Tuxedomoon hanno composto per un balletto di Maurice Bejart. Oppure nei titoli di testa di “Twin Peaks” o nella copertina di ogni album di Tom Waits.

Oppure in un video in bianco e nero di Bruce Springsteen, uno degli artisti più equivocati, qui in Europa e soprattutto qui, in Italia. Gli equivoci li riserviamo ad un futuro approfondimento, tanto dispersivo sarebbe trattarli.

Bruce Springsteen e la sua Dream baby dream

Nel video rivelatore Springsteen canta, all’inizio accompagnandosi solamente con un minimoog, Dream baby dream, un pezzo dei Suicide. Che c’è di tanto strano? C’è che un pezzo di un gruppo semisconosciuto ai più, viene reinterpretato con l’umiltà che si riserva ai classici. Un pezzo di bravura e di totale immersione ed adesione in quello che non è ancora un brano della tradizione musicale americana, ma che lo diventerà dopo questa performance. Ma, attenzione, non lo diventa perché la star, in questo caso Springsteen, lo ha interpretato, bensì perché il brano lo era già in nuce. Occorreva solo determinare l’occasione per farlo assurgere a traditional.

Queste cose le sanno fare, ora, solo in America. E in Inghilterra.

Come controprova tentate di immaginare un qualunque cantante italiano ultrasessantenne alle prese con un qualsiasi pezzo di un misconosciuto gruppo italiano degli anni settanta. Provate ad immaginare il risultato. Nella migliore delle ipotesi il tutto si ridurrebbe ad una buona cover, ben lontana dalla resa mitologica che ne ha fatto Springsteen.

Per divertirci facciamo qualche esempio. Immaginate Venditti o Morandi (fra i due se proprio devo scegliere, scelgo il bolognese) che durante un loro concerto intonano un brano che ha fatto battere tanti giovani cuori, ma che non ha mai conosciuto gli allori delle hit parade nostrane, come “Benvenuti nei rifiuti” di Faust’ò oppure “Pioggia” dei Diaframma.

E gli esempi sarebbero innumerevoli. Tutti, a mio giudizio, sarebbero sotto la soglia della decenza.

Non mancano i buoni propositi. Riscontrabili in cover di Luca Carboni, che ha eseguito splendidamente “Ho visto anche degli zingari felici” di Claudio Lolli, o di Mauro Ermanno Giovanardi, che con i suoi La Crus ha avuto modo di far conoscere un pezzo straziacuori dei CCCP come “Annarella”.

Ma siamo ben lontani da quelle lande descritte in precedenza. Ben lontani dal mito. Ben lontani dall’essere maturi.




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