The 1959 project: storia di un anno cruciale nella storia del jazz
Il 31 dicembre del 1958, se giravi per Manhattan in cerca di un posto dove andare a festeggiare con dell’ottima musica, non avevi che l’imbarazzo della scelta. Lungo le strade del jazz, ogni volta che si apriva una porta, si sentivano squillare le note fin sui marciapiedi. C’era Dizzy Gillespie che suonava al Village Vanguard, Count Basie che col suo swing infuocava il Birdland e, al Five Spot, sul palco sarebbero saliti il trio di Sonny Rollins e il duo di Charles Mingus.
Ma né Gillespie né Basie, e neppure Rollins, Mingus e tutti gli altri jazzisti che quella notte stavano suonando nei locali di New York, e di sicuro nessuno tra quelli che si erano messi il loro miglior vestito da sera per passare la serata bevendo, urlando e ballando, sapevano che quello in cui stavano entrando, un po’ storditi e un po’ eccitati, sarebbe stato un anno cruciale per la storia del jazz, della musica più in generale e, quindi, della cultura contemporanea.
Il 1959 fu l’anno in cui Miles Davis entrò in studio per registrare — in due sessioni, la prima a inizio marzo, la seconda in aprile — un pietra miliare come Kind of Blue, un disco nato da un’idea, che Davis portò nella sala di registrazione in forma di semplici bozze e che poi l’improvvisazione, il genio e la professionalità dei musicisti condusse da tutt’altra parte. «Buona la prima», era quello che si sentì dire più spesso in quello studio.
Tra i musicisti che parteciparono a quelle due sessioni c’era anche John Coltrane, che poco più avanti, lo stesso anno, decise di fare il grande passo e tagliò il cordone ombelicale che lo teneva attaccato a Davis, registrando il suo primo, grande successo: il disco — dal titolo emblematico — Giant Steps.
Coltrane registrò la prima session di Giant Steps tra il 4 e il 5 maggio, la stessa sera in cui si tenne la prima edizione degli Emmy Awards, che vide, tra i vincitori, Ella Fitzgerald e Count Basie.
Poche settimane dopo Billie Holiday venne portata in ospedale per problemi al cuore e al fegato. Lì, sul letto, la polizia la arrestò e la ammanettò per possesso di droga. Holiday rimase in ospedale fino al 17 luglio quando, ancora sotto la custodia della polizia, morì di edema polmonare e insufficienza cardiaca causati da una cirrosi epatica che se la portò via a 44 anni.
«Se non fosse stato per questo», scrisse Miles Davis a proposito della morte di Holiday sulla sua autobiografia, «nel 1959 mi sentivo al settimo cielo».
E non era solo il “principe dell’oscurità” — uno dei soprannomi di Davis, l’altro era semplicemente “Miles” — a provare quest’elettrica eccitazione.
Basta dare un’occhiata alle uscite discografiche di quei 12 mesi che chiusero gli anni ’50: Dave Brubeck pubblicò uno dei più grandi successi jazz di sempre, Time Out, Chet Baker firmò Chet e Ornette Coleman Tomorrow Is the Question! e The Shape of Jazz to Come. Charles Mingus vide ben tre suoi album sugli scaffali — Blues & Roots, Mingus Ah Um e Mingus Dynasty — e lo stesso successe a Cannonball Adderley (Cannonball Takes Charge, The Cannonball Adderley Quintet in San Francisco e, insieme a Coltrane, Cannonball Adderley Quintet in Chicago), Thelonious Monk (5 by Monk by 5, The Thelonious Monk Orchestra at Town Hall, Thelonious Alone in San Francisco), mentre un già sessantenne Duke Ellington vide addirittura quattro lp col suo nome sopra arrivare nei negozi.
E i titoli succitati — molti dei quali sono nelle raccolte di dischi della maggior parte degli appassionati di jazz — sono solo la punta di un iceberg fatto di decine e decine di sessioni di registrazioni, concerti, e uscite oggi considerate seminali. Visto da lontano, a sessant’anni esatti di distanza, il 1959 fu indubbiamente uno dei più ricchi, densi, magici, fertili momenti per il genere musicale che lo stesso Ellington una volta definì con una curiosa ma potente metafora: «in generale, il jazz è sempre stato il tipo di uomo con cui non vorresti che tua figlia uscisse».
A testimoniarne la portata, attraverso un piccolo progetto online pieno di informazioni, di storie e di “chicche” da ascoltare, è un sito lanciato a inizio 2019 dalla giornalista sportiva — e appassionata di jazz, ça va sans dire — Natalie Weiner.
Intitolato semplicemente The 1959 Project, pubblica quotidianamente contenuti relativi allo stesso giorno di sei decadi prima.
L’intento, come spiega la stessa Weiner, è «mettere insieme frammenti del periodo, per dare più colore a quei dettagli — cercando di illuminare le comunità e le scene intorno ai personaggi e alle registrazioni iconiche della storia del jazz — e rendere il viaggio indietro nel tempo un po’ più reale».
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