Purple Mountains – Purple Mountains (2019)

di Stefano Solventi

Riepiloghiamo: per venti anni più o meno esatti i Silver Jews di David Berman hanno detto la loro (sei album, due EP) in materia di lo-fi indie, rappresentando in un certo senso l’alter ego dei Pavement, coi quali hanno tra l’altro condiviso un pezzetto di strada iniziale, seppure – come dire – in nuce, visto che nel bel mezzo degli Eighties prese vita la compagine Ectoslavia, di cui fecero parte oltre a Berman anche Stephen Malkmus e Bob Nastanovich. Formidabili quegli anni, certo, ma nel 2009 calò il sipario: Berman, da sempre refrattario alle regole, ai riti e ai cliché del rock (celebre la sua riluttanza a esibirsi dal vivo), decise che era il caso di chiuderla lì. Niente più Silver Jews, niente più rock. A quarantadue anni era arrivato il momento di pensare ad altro, anche perché non aveva mai disdegnato la scrittura (poesie, soprattutto) e il disegno. Capitolo chiuso, quindi. Anzi, no.

Nel frattempo ha pubblicato raccolte di poesie e illustrazioni (non è uno di quelli che si ferma alle intenzioni), ha aperto un blog di successo, si è separato, ha visto morire sua madre e insomma ha fatto il suo ingresso nel territorio accidentato della mezza età. Dove, tra le altre cose, campeggia un disincanto amarognolo ad alto coefficiente di penetrazione. Risultato, dopo dieci anni di silenzio discografico il “ritiro” diventa uno “iato”. Non per la band, i SJ rimangono morti e sepolti. Al loro posto ecco i Purple Mountains, combo con base a Chicago che vede il leader in combutta con Jeremy Earl e Jarvis Taveniere (dei newyorkesi Woods), Aaron Neveu e la vocalist Anna. St Louis.

L’omonimo album d’esordio è in un certo senso quello che ti aspetteresti tenuto conto delle premesse, i dieci pezzi in programma si disimpegnano cioè nell’alveo di una abbastanza prevedibile normalizzazione rispetto agli spigoli, alle vampe contorte e al trasporto problematico dell’antica ragione sociale. Eppure, tutto funziona. Non solo, è convincente e nel complesso avvincente. Berman esercita una spietata disillusione nei confronti di se stesso e di ciò che il tempo lo ha portato a credere delle cose della vita, le racconta con flemma agrodolce, impastando senso di sconfitta, distacco estatico, shot di malinconia e aspersioni generose di umorismo come un Randy Newman capitato nello stesso club di Howe Gelb. Grandi meditazioni e rimpianti a cuore sbucciato finiscono così glassati nello zucchero caldo e vagamente alcolico di un “mestiere” che ribolle di urgenza sì, ma più letteraria che reale: prendi la tensione fragrante di Margaritas At The Mall, l’ancheggiante rassegnazione di Maybe I’m The Only One For Me o lo scoramento radioso di All My Happiness Is Gone. Tutto si consuma sulla linea di confine tra la cosiddetta (fantomatica, mitologica) autenticità e una sua arguta rielaborazione, ed è probabilmente la cosa migliore che poteva accadere a Berman e a noi che lo ascoltiamo.

La canzone come teatrino provvisorio in cui si consuma la messinscena più adatta a raccontare ciò che deve essere raccontato. Tanto lo zompare laconico di Storyline Fever che l’incedere lunare di Nights That Won’t Happen (dove il ciondolo di basso e batteria mimano quasi il distacco abbacinato degli Sparklehorse altezza Sunshine, mentre la chitarra si aggira con calligrafismo younghiano) sembrano tracciare il perimetro all’interno del quale si compiono le riflessioni argute o malmostose del caso. Per non dire di una Snow Is Falling in Manhattan che prende in prestito l’abbandono dolciastro di Coney Island Baby per arredare uno smarrimento che procede geografico e intimo, emotivo e speculativo, fermo restando un distacco tra narratore e narrato che sottolinea il senso di maturità di cui tutto è intriso.

Di questo disco posso dire insomma e tra le altre cose che è uno dei migliori rientri in pista che ricordi; che non se la gioca con i lavori dei Silver Jews perché gioca tutta un’altra partita, si sceglie un altro terreno, altri obiettivi; che dimostra come la canzone possa ancora proporsi come il perno di una proposta espressiva rock dalle grandi potenzialità e ben innestate nel presente. Un rock capace di vampirizzare attitudine, narrativa, poesia, maturità, sguardo, vita: i Purple Mountains tracciano un perimetro all’interno del quale il rock non ha ancora finito di dire ciò che può, deve, sa dire.

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