Banks – III (2019)
Negli ultimi anni il confine tra musica mainstream e musica “avant” si è assottigliato sempre di più. Alcuni degli artisti più famosi e importanti del mondo hanno iniziato a collaborare con produttori e musicisti innovativi e di grido che non avevano giustamente nessuna intenzione di restare confinati nel recinto dell'underground (poi un giorno affronteremo per bene il discorso) per creare una musica ambiziosa, interessante e al tempo stesso ricca di ricerca e molto diversa dalla normale massimalizzazione che storicamente contraddistingue la musica mainstream. I nomi che possiamo fare sono sempre gli stessi: Kanye West; Beyonce; Rihanna, ma anche la stessa Madonna e artisti hip hop famosissimi oltreoceano come The Weeknd e Frank Ocean. Questo processo ha via via creato un terzo spazio che non sta né nel mainstream, né ovviamente nell'underground. Uno spazio in cui si muove una musica che alla meglio riesce a “rendere pop” il discorso dell’avanguardia e alla peggio, alla peggio sembra un calco manierista di qualcosa di più interessante e più coraggioso.
È in questo spazio che troviamo Jillian Banks, cantante americana che al suo esordio del 2014, Goddess, è stata trattata un po’ come una parvenu molto abile ad accodarsi ai trend sempre più dominanti per scrivere canzoni efficaci ma tremendamente furbe. Diventato un nome relativamente famoso, dopo un passaggio a vuoto con un secondo disco — The Altar — incapace di lasciare traccia, Banks torna in questi giorni con III (Harvest), un lavoro in cui decide di prendersi qualche rischio e spingere più in là i confini del suo pop-soul algido e alieno, in cui la componente “black” viene meno in favore di quella “dark” e perturbante.
Ad un primo ascolto la sensazione è quella di stare ascoltando una versione più easy di FKA Twigs e Bon Iver (in assoluto due delle esperienze artistiche più interessanti e significative di questi anni). Del resto, di Bon Iver qui troviamo il produttore e collaboratore BJ Burton, oltre ad altri pezzi grossi della scena avant come Hudson Mohawke. Una formula che funziona. Bassi ipercaricati e distorti. Frammenti di suono destrutturati che diventano ritmiche al tempo stesso storte e tesissime. Voci effettate (ma non secondo lo stile della trap: l’idea qui è di creare l’effetto dell’altro) e capaci anche loro di diventare elementi del tappeto musicale. Melodie in qualche modo retrò ma ancorate al presente. Il tutto a servizio di canzoni dotate anche si un respiro potenzialmente radio friendly come il primo singolo Gimme, o Look What You’re Doing To Me, un nu-soul molto catchy scritto con i Francis and the Light.
L’oggetto alieno Banks, abitante di quel terzo spazio difficile da definire, è sempre stato molto controverso per i critici. Sempre stroncata o esaltata (per i motivi di cui sopra), ha fatto un disco coraggioso che ha accontentato i detrattori della prima ora e scontentato quelli che invece avevano apprezzato i primi lavori. Anche se sappiamo bene come sia difficile slegare gli articoli dal periodo storico in cui vengono scritti. A chi scrive, ad esempio, il primo disco di Banks, Goddess, era piaciuto moltissimo proprio perché ho sempre apprezzato l’idea di lavorare nel terzo spazio se si riesce a cedere a compromessi con dignità e capacità di scrittura. Anche perché quel disco aveva canzoni stupende come Begging for Thread e Waiting Game. Furbe il giusto, ma con una capacità di disegnare affreschi sonori interessanti.
Ecco perché la verità su Banks, ovviamente, va cercata nel mezzo: ed è nella dimostrazione della possibilità di un pop intelligente che riesca a tenere in mezzo ambizioni di classifica e una ricerca capace di rendere la musica credibile. III decide di percorrere la strada più difficile e ci riesce. Con qualche lungaggine di troppo, qualche passaggio a vuoto, ma con la sensazione di saper perfettamente dove andare. E va bene così.
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