Steve Earle & The Dukes – Guy (2019)

di Ermanno Labianca

"Qualche settimana dopo che Guy aveva lasciato questo mondo ci riunimmo tutti, noi amici più stretti, nello studio fotografico di Jim McGuire, a Nashville. Jim stese un po' di foto su un tavolo. Queste viste tutte insieme formavano la storia della vita di Guy. Io lo conobbi che ero giovanissimo, infatti in alcune di quelle foto ero solo una silhouette sfuggente, ai margini di qualche inquadratura. Era appena trentatreenne quando lo conobbi, io vent'anni o qualcosa di meno. L'ho sempre visto giovane e incapace di invecchiare. Me lo sono goduto, il mio amico. So che lascerò questo mondo con un solo rimorso: quello di non aver mai composto una canzone intitolata 'Guy Clark'".

Ha scritto questo Steve Earle, a New York City, nel novembre dello scorso anno, in chiusura dei lavori per il suo disco "Guy", dedicato al songwriter, texano come lui, che più lo ha ispirato. Non una canzone, ma un intero album, nel pensiero di Guy Clark. scomparso nel 2016. Si tratta del proseguimento di quella piccola catena di omaggi che Earle sta dedicando ai grandi che lo hanno maggiormente influenzato. Dopo Townes Van Zandt (l'album "Townes" è del 2009 e portò Earle a dichiarare "Van Zandt è il mio Bob Dylan"), ecco Clark. Due dischi bellissimi e ispirati (del secondo stiamo qui per parlarne) che hanno un compagno ideale, quel "Step inside this house", CD doppio pubblicato nel 1998 da Lyle Lovett, il quale omaggiava magistralmente una serie di autori del suo stato, gente che lo aveva preceduto e che aveva di fatto generato la canzone d'autore texana. Tra questi, naturalmente, c'erano Townes Van Zandt e Guy Clark. Accanto alle loro, anche canzoni di Michael Martin Murphey e Robert Earl Keen.

Se con "Townes" dieci anni fa si era guadagnato un Grammy Award, ci sono possibilità che con questo nuovo omaggio Earle bissi quel risultato, tanto sentito, accorato ed estremamente affettuoso è il messaggio che giunge ascoltando queste sedici tracce, le sedici canzoni di Guy Clark che l'uomo di "Guitar Town" e "Copperhead road", due tra i più significativi album di rock americano d'autore degli anni Ottanta (per non dire dei tanti prodotti più intimi e di nicchia pubblicati nei decenni a seguire), ha scelto per ricordare l'amico di una vita. Ancora confezionato da Tony Fitzpatrick, l'artista di Chicago che immagina e realizza front cover per Earle da più di vent'anni (esattamente da "I feel allright" del 1996), il nuovo progetto di Steve Earle è tanto chiaro quanto eccellente. Non si potevano nutrire dubbi su questo. Validissimo l'autore delle canzoni, altrettanto valido e in grande confidenza con il repertorio l'esecutore, tutto viaggia alla giusta velocità, senza che una foglia sia fuori posto nello scenario che andiamo ad attraversare brano dopo brano.

I due stili aderiscono così tanto che sembrerebbe di ascoltare un disco di composizioni di Earle, non fosse che alcune delle tracce sono da decenni particolarmente note all'orecchio di chi oggi frequenta la musica del più giovane dei due texani. Note appunto downloadperché estratte da album come "Old No1" e "Texas cookin'" che imposero Clark a metà degli anni Settanta come il capostipite insieme a Van Zandt di una corrente allora giovane, che contrapponeva i rustici lavori dei signori del Texas ai più meditati e ambiziosi prodotti dei loro colleghi californiani e canadesi. Dall'iniziale Dublin blues, colta dall'omonimo album di metà anni Novanta, alla conclusiva, corale Old friend (che vede impegnati con Earle anche Terry Allen, Jerry Jeff Walker, Emmylou Harris, Rodney Crowell e Jo Harvey Allen, una sorta di nazionale del songwriting americano degli stati a sud) è un susseguirsi di emozioni che ci fanno riaprire dischi mai dimenticati. La fanno da padrone i due di metà anni Settanta (nove canzoni in totale), seguiti dal quarto, "The South coast of Texas" del 1981, che ne offre tre. Il resto arriva fino al disco "Cold dog soup" del 1999, da dove Earle ha pescato Sis draper, che qui i Dukes rimasticano in versione bluegrass abbastanza spinta e robusta.

È proprio la storica band di Earle a segnare la differenza tra i due omaggi che Earle ha realizzato a distanza di dieci anni l'uno dall'altro. Decisamente più acustico il primo, realizzato non a caso dopo quel capolavoro di folk newyorkese intitolato "Washington Square Serenade", più vario nelle sonorità "Guy", che lascia affiorare più anime dell'autore nato a Fort Monroe. Difficile esaltare questo o quel brano. Qui è tutto di alto livello visto che attinge a un repertorio di gran qualità ben selezionato da un autore brillantissimo che USA – Steve Earle - Portraituremolto ha amato queste canzoni. Tuttavia L.A. Freeway e Desperados waiting for a train restano, a prescindere da questo omaggio, esempi abbastanza monumentali di quanto il songwriting texano costituisca la spina dorsale della musica d'autore americana. Chi volesse approfondire l'argomento, infilandosi ancor di più nella scena qui raccontata, si procuri - oltre agli omaggi qui diffusamente celebrati e al disco di Lovett di cui sopra, che la scena analizzò molto bene dieci anni prima che Earle partorisse il suo primo tributo mirato - anche l'imperdibile live "Together at the bluebird cafè" del 1995, che immortala una serata rimasta unica, con Earle, Van Zandt e Clark seduti in circolo nello storico bar di Nashville, colti a cantare, alternandosi, le proprie canzoni. Nessun duetto, nessun brano a tre: uno cantava, gli altri ascoltavano. Ma conoscere la storia successiva, e sapere che morti i due maestri Earle gli ha assegnato un omaggio a testa, un intero disco di loro canzoni filtrate dal suo amore e dalla sua sensibilità, mette oggi i brividi.

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